vatican.vahttps://www.vatican.vavatican.vait<![CDATA[Santa Messa nella Cena del Signore (Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, 28 marzo 2024)]]>Thu, 28 Mar 2024 16:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2024/documents/20240328-omelia-coena-domini.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2024/documents/20240328-omelia-coena-domini.html

In questo momento della cena, due episodi attirano la nostra attenzione. La lavanda dei piedi di Gesù: Gesù si umilia, e con questo gesto ci fa capire quello che aveva detto: «Io non sono venuto per essere servito, ma per servire» (cfr Mc 10,45). Ci insegna il cammino del servizio.

L’altro episodio – triste – è il tradimento di Giuda che non è capace di portare avanti l’amore, e poi i soldi, l’egoismo lo portano a questa cosa brutta. Ma Gesù perdona tutto. Gesù perdona sempre. Soltanto chiede che noi chiediamo il perdono.

Una volta, ho sentito una vecchietta, saggia, una vecchietta nonna, del popolo … Ha detto così: «Gesù non si stanca mai di perdonare: siamo noi a stancarci di chiedere perdono». Chiediamo oggi al Signore la grazia di non stancarci.

Sempre, tutti noi abbiamo piccoli fallimenti, grandi fallimenti: ognuno ha la propria storia. Ma il Signore ci aspetta sempre, con le braccia aperte, e non si stanca mai di perdonare.

Adesso faremo lo stesso gesto che ha fatto Gesù: lavare i piedi. È un gesto che attira l’attenzione sulla vocazione del servizio. Chiediamo al Signore che ci faccia crescere, tutti noi, nella vocazione del servizio.

Grazie.

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<![CDATA[Santa Messa del Crisma (28 marzo 2024)]]>Thu, 28 Mar 2024 09:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2024/documents/20240328-omelia-crisma.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2024/documents/20240328-omelia-crisma.html

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4,20). Colpisce sempre questo passaggio del Vangelo, che porta a visualizzare la scena: a immaginare quel momento di silenzio in cui tutti gli sguardi erano concentrati su Gesù, in un misto di meraviglia e di diffidenza. Sappiamo tuttavia come andò a finire: dopo che Gesù ebbe smascherato le false aspettative dei suoi compaesani, essi «si riempirono di sdegno» (Lc 4,28), uscirono e lo cacciarono fuori della città. I loro occhi avevano fissato Gesù, ma i loro cuori non erano disposti a cambiare sulla sua parola. Così persero l’occasione della vita.

Ma nella sera di oggi, Giovedì santo, avviene un incrocio di sguardi alternativo. Protagonista è il primo Pastore della nostra Chiesa, Pietro. Pure lui all’inizio non prestò fiducia alla parola “smascherante” che il Signore gli aveva rivolto: «Tre volte mi rinnegherai» (Mc 14,30). Così “perse di vista” Gesù e lo rinnegò al canto del gallo. Ma poi, quando «il Signore si voltò e fissò lo sguardo» su di lui, questi «si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto […] E uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,61-62). I suoi occhi furono inondati di lacrime che, sgorgate da un cuore ferito, lo liberarono da convinzioni e giustificazioni fasulle. Quel pianto amaro gli cambiò la vita.

Le parole e i gesti di Gesù per anni non avevano smosso Pietro dalle sue attese, simili a quelle della gente di Nazaret: anche lui aspettava un Messia politico e potente, forte e risolutore, e di fronte allo scandalo di un Gesù debole, arrestato senza opporre resistenza, dichiarò: «Non lo conosco!» (Lc 22,57). Ed è vero, non lo conosceva: cominciò a conoscerlo quando, nel buio del rinnegamento, fece spazio alle lacrime della vergogna, alle lacrime del pentimento. E lo conoscerà davvero quando, «addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”», si lascerà pienamente attraversare dallo sguardo di Gesù. Allora dal «non lo conosco» passerà a dire: «Signore, tu conosci tutto» (Gv 21,17).

Cari fratelli sacerdoti, la guarigione del cuore di Pietro, la guarigione dell’Apostolo, la guarigione del Pastore avvengono quando, feriti e pentiti, ci si lascia perdonare da Gesù: passano attraverso le lacrime, il pianto amaro, il dolore che consente di riscoprire l’amore. Per questo ho sentito di condividere con voi, qualche pensiero su un aspetto della vita spirituale piuttosto tralasciato, ma essenziale; lo ripropongo oggi con una parola forse desueta, ma che credo ci faccia bene riscoprire: la compunzione.

La parola evoca il pungere: la compunzione è “una puntura sul cuore”, una trafittura che lo ferisce, facendo sgorgare le lacrime del pentimento. Un episodio, che riguarda ancora San Pietro, ci aiuta. Egli, trafitto dallo sguardo e dalle parole di Gesù risorto, nel giorno di Pentecoste, purificato e infuocato dallo Spirito, proclamò agli abitanti di Gerusalemme: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (cfr At 2,36). Gli ascoltatori avvertirono insieme il male che avevano compiuto e la salvezza che il Signore elargiva loro, e «all’udire queste cose – dice il testo – si sentirono trafiggere il cuore» (At 2,37).

Ecco la compunzione: non un senso di colpa che butta a terra, non una scrupolosità che paralizza, ma è una puntura benefica che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo smuove facendo scorrere le lacrime sul volto. Chi getta la maschera e si lascia guardare da Dio nel cuore riceve il dono di queste lacrime, le acque più sante dopo quelle del Battesimo [1]. Cari fratelli sacerdoti, oggi vi auguro questo.

Occorre però comprendere bene che cosa significhi piangere su noi stessi. Non significa piangerci addosso, come spesso siamo tentati di fare. Ciò avviene, ad esempio, quando siamo delusi o preoccupati per le nostre attese andate a vuoto, per la mancanza di comprensione da parte degli altri, magari dei confratelli e dei superiori. Oppure quando, per uno strano e insano piacere dell’animo, amiamo rimestare nei torti ricevuti per auto-commiserarci, pensando di non aver ricevuto ciò che meritavamo e immaginando che il futuro non potrà che riservarci continue sorprese negative. Questa – ci insegna San Paolo – è la tristezza secondo il mondo, opposta a quella tristezza secondo Dio [2].

Piangere su noi stessi, invece, è pentirci seriamente di aver rattristato Dio col peccato; è riconoscere di essere sempre in debito e mai in credito; è ammettere di aver smarrito la via della santità, non avendo tenuto fede all’amore di Colui che ha dato la vita per me [3]. È guardarmi dentro e dolermi della mia ingratitudine e della mia incostanza; è meditare con tristezza le mie doppiezze e falsità; è scendere nei meandri della mia ipocrisia, l’ipocrisia clericale, cari fratelli, quella ipocrisia nella quale scivoliamo tanto, tanto…State attenti alla ipocrisia clericale. Per poi, rialzare lo sguardo al Crocifisso e lasciarmi commuovere dal suo amore che sempre perdona e risolleva, che non lascia mai deluse le attese di chi confida in Lui. Così le lacrime continuano a scendere e purificano il cuore.

La compunzione, infatti, richiede fatica ma restituisce pace; non provoca angoscia, ma alleggerisce l’anima dai pesi, perché agisce nella ferita del peccato, disponendoci a ricevere proprio lì la carezza del Signore che trasforma il cuore quando è «contrito e affranto» (Sal 51,19), ammorbidito dalle lacrime. La compunzione è dunque l’antidoto alla sclerocardia, quella durezza del cuore tanto denunciata da Gesù (cfr Mc 3,5; 10,5). Il cuore, infatti, senza pentimento e pianto, si irrigidisce: dapprima diventa abitudinario, poi insofferente per i problemi e indifferente alle persone, quindi freddo e quasi impassibile, come avvolto da una scorza infrangibile, e infine cuore di pietra. Ma, come la goccia scava la pietra, così le lacrime lentamente scavano i cuori induriti. Si assiste così al miracolo della tristezza, della buona tristezza che conduce alla dolcezza.

Capiamo allora perché i maestri spirituali insistono sulla compunzione. San Benedetto invita ogni giorno a «confessare a Dio con lacrime e gemiti le proprie colpe passate» [4], e afferma che pregando «non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e per la compunzione che strappa le lacrime» [5]. E se per San Giovanni Crisostomo una sola lacrima spegne un braciere di colpe [6], l’ Imitazione di Cristo raccomanda: «Abbandonati alla compunzione del cuore», in quanto «per leggerezza di cuore e noncuranza dei nostri difetti spesso non ci rendiamo conto dei guai della nostra anima» [7]. La compunzione è il rimedio, perché ci riporta alla verità di noi stessi, così che la profondità del nostro essere peccatori riveli la realtà infinitamente più grande del nostro essere perdonati, la gioia di essere perdonato. Non stupisce pertanto l’affermazione di Isacco di Ninive: «Colui che dimentica la misura dei propri peccati, dimentica la misura della grazia di Dio nei suoi confronti» [8].

È vero, cari fratelli e sorelle, ogni nostra rinascita interiore scaturisce sempre dall’incontro tra la nostra miseria e la sua misericordia - si incontrano la nostra miseria e la sua misericordia -, ogni rinascita interiore passa attraverso la nostra povertà di spirito che permette allo Spirito Santo di arricchirci. Si comprendono in questa luce le forti affermazioni di tanti maestri spirituali. Pensiamo a quelle, paradossali, ancora di Sant’Isacco: «Colui che conosce i propri peccati […] è più grande di colui che con la preghiera risuscita i morti. Colui che piange un’ora su se stesso è più grande di chi serve il mondo intero con la contemplazione […]. Colui al quale è dato di conoscere se stesso è più grande di colui a cui è dato di vedere gli angeli» [9].

Fratelli, veniamo a noi, sacerdoti, e chiediamoci quanto la compunzione e le lacrime siano presenti nel nostro esame di coscienza e nella nostra preghiera. Domandiamoci se, col passare degli anni, le lacrime aumentano. Sotto questo aspetto è bene che avvenga il contrario rispetto alla vita biologica, dove, quando si cresce, si piange meno di quando si è bambini. Nella vita spirituale, invece, dove conta diventare bambini (cfr Mt 18,3), chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, fatta di adorazione e commozione davanti a Dio, quello matura. Si lega sempre meno a sé stesso e più a Cristo, e diventa povero in spirito. In tal modo si sente più vicino ai poveri, i prediletti di Dio, che prima – come scrive San Francesco nel suo testamento – teneva lontani in quanto era nei peccati, ma la cui compagnia, poi, da amara diventa dolce [10]. E così chi si compunge nel cuore si sente sempre più fratello di tutti i peccatori del mondo, si sente più fratello, senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma sempre con desiderio di amare e riparare.

E questa, fratelli cari, è un’altra caratteristica della compunzione: la solidarietà. Un cuore docile, affrancato dallo spirito delle Beatitudini, diventa naturalmente incline a fare compunzione per gli altri: anziché adirarsi e scandalizzarsi per il male compiuto dai fratelli, piange per i loro peccati. Non si scandalizza. Avviene una sorta di ribaltamento, dove la tendenza naturale a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge e, per grazia di Dio, si diventa fermi con sé stessi e misericordiosi con gli altri. E il Signore cerca, specialmente tra chi è consacrato a Lui, chi pianga i peccati della Chiesa e del mondo, facendosi strumento di intercessione per tutti. Quanti testimoni eroici nella Chiesa ci indicano questa via! Pensiamo ai monaci del deserto, in Oriente e in Occidente; all’intercessione continua, fatta di gemiti e lacrime, di San Gregorio di Narek; all’offerta francescana per l’Amore non amato; a sacerdoti, come il Curato d’Ars, che vivevano di penitenza per la salvezza altrui. Cari fratelli, non è poesia questo, questo è sacerdozio!

Cari fratelli, a noi, suoi Pastori, il Signore non chiede giudizi sprezzanti su chi non crede, ma amore e lacrime per chi è lontano. Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, le sofferenze che tocchiamo, a contatto con un cuore compunto non suscitano la risolutezza nella polemica, ma la perseveranza nella misericordia. Quanto abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, da egoismi e ambizioni, da rigidità e insoddisfazioni, per affidarci e affidare a Dio, trovando in Lui una pace che salva da ogni tempesta! Adoriamo, intercediamo e piangiamo per gli altri: permetteremo al Signore di compiere meraviglie. E non temiamo: Lui ci sorprenderà!

Il nostro ministero ne gioverà. Oggi, in una società secolare, corriamo il rischio di essere molto attivi e al tempo stesso di sentirci impotenti, col risultato di perdere l’entusiasmo ed essere tentati di “tirare i remi in barca”, di chiuderci nella lamentela e far prevalere la grandezza dei problemi sulla grandezza di Dio. Se ciò avviene, diventiamo amari e pungenti sempre sparlando, sempre trovando qualche occasione per lamentarsi. Ma se invece l’amarezza e la compunzione si rivolgono, anziché al mondo, al proprio cuore, il Signore non manca di visitarci e rialzarci. Come esorta a fare l’ Imitazione di Cristo: «Non portare dentro di te le faccende degli altri, non impicciarti neppure di quello che fanno le persone più in vista; piuttosto vigila sempre e in primo luogo su di te, e rivolgi il tuo ammonimento particolarmente a te stesso, prima che ad altre persone, anche care. Non rattristarti se non ricevi il favore degli uomini; quello che ti deve pesare, rattristare, invece, è la constatazione di non essere del tutto e sicuramente sulla via del bene» [11].

Da ultimo, vorrei sottolineare un aspetto essenziale: la compunzione non è tanto frutto del nostro esercizio, ma è una grazia e come tale va chiesta nella preghiera. Il pentimento è dono di Dio, è frutto dell’azione dello Spirito Santo. Per facilitarne la crescita, condivido due piccoli consigli. Il primo è quello di non guardare la vita e la chiamata in una prospettiva di efficienza e di immediatezza, legata solo all’oggi e alle sue urgenze e aspettative, ma nell’insieme del passato e del futuro. Del passato, ricordando la fedeltà di Dio - Dio è fedele - , facendo memoria del suo perdono, ancorandoci al suo amore; e del futuro, pensando alla meta eterna a cui siamo chiamati, al fine ultimo della nostra esistenza. Allargare gli orizzonti, cari fratelli, allargare gli orizzonti aiuta a dilatare il cuore, stimola a rientrare in sé stessi con il Signore e a vivere la compunzione. Un secondo consiglio, che viene di conseguenza: riscopriamo la necessità di dedicarci a una preghiera che non sia dovuta e funzionale, ma gratuita, calma e prolungata. Fratello, com’è la tua preghiera? Torniamo all’adorazione - ti sei dimenticato di adorare? - e torniamo alla preghiera del cuore. Ripetiamo: Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Sentiamo la grandezza di Dio nella nostra bassezza di peccatori, per guardarci dentro e lasciarci attraversare dal suo sguardo. Riscopriremo la sapienza della Santa Madre Chiesa, che ci introduce alla preghiera sempre con l’invocazione del povero che grida: O Dio, vieni a salvarmi.

Carissimi, torniamo infine a San Pietro e alle sue lacrime. L’altare posto sopra la sua tomba non può che farci pensare a quante volte noi, che lì ogni giorno diciamo: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», quante volte deludiamo e rattristiamo Colui che ci ama al punto da fare delle nostre mani gli strumenti della sua presenza. È bene pertanto fare nostre quelle parole con cui ci prepariamo sottovoce: «Umili e pentiti accoglici, o Signore», e ancora: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». In tutto, fratelli, ci consola la certezza consegnataci oggi dalla Parola: il Signore, consacrato con l’unzione (cfr Lc 4,18), è venuto «a fasciare le piaghe dei cuori spezzati» (Is 61,1). Dunque, se il cuore si spezza potrà essere fasciato e guarito da Gesù. Grazie, cari sacerdoti, grazie per il vostro cuore aperto e docile; grazie per le vostre fatiche e grazie per i vostri pianti; grazie perché portate la meraviglia della misericordia – perdonate sempre, siate misericordiosi – e portate questa misericordia, portate Dio ai fratelli e alle sorelle del nostro tempo. Cari sacerdoti, Il Signore vi consoli, vi confermi e vi ricompensi. Grazie.

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[1] «La Chiesa ha l’acqua e le lacrime: l’acqua del Battesimo, le lacrime della Penitenza» (S. Ambrogio, Epistula extra collectionem, I, 12).

[2] «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» ( 2 Cor 7,10).

[3] Cfr S. Giovanni Crisostomo, De compunctione, I, 10.

[4] Regola, IV,57.

[5] Ivi, XX,3.

[6] Cfr De paenitentia, VII,5.

[7] Cap. XXI.

[8] Discorsi ascetici (III Coll.), XII.

[9] Discorsi ascetici (I Coll.), XXXIV (vers. greca).

[10] Cfr FF 110.

[11] Cap. XXI.

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<![CDATA[Lettera del Santo Padre ai cattolici di Terra Santa (Settimana Santa 2024)]]>Wed, 27 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240327-lettera-cattolici-terrasanta.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240327-lettera-cattolici-terrasanta.html

Cari fratelli e sorelle,

da tempo vi penso e ogni giorno prego per voi. Ma ora, alla vigilia di questa Pasqua, che per voi sa tanto di Passione e ancora poco di Risurrezione, sento il bisogno di scrivervi per dirvi che vi porto nel cuore. Sono vicino a tutti voi, nei vostri vari riti, cari fedeli cattolici sparsi su tutto il territorio della Terra Santa: in particolare a quanti, in questi frangenti, stanno patendo più dolorosamente il dramma assurdo della guerra, ai bambini cui viene negato il futuro, a quanti sono nel pianto e nel dolore, a quanti provano angoscia e smarrimento.

La Pasqua, cuore della nostra fede, è ancora più significativa per voi che la celebrate nei Luoghi in cui il Signore è vissuto, morto e risorto: non solo la storia, ma neanche la geografia della salvezza esisterebbe senza la Terra che voi abitate da secoli, dove volete restare e dov’è bene che possiate restare. Grazie per la vostra testimonianza di fede, grazie per la carità che c’è tra di voi, grazie perché sapete sperare contro ogni speranza.

Desidero che ciascuno di voi senta il mio affetto di padre, che conosce le vostre sofferenze e le vostre fatiche, in particolare quelle di questi ultimi mesi. Insieme al mio affetto, possiate percepire quello di tutti i cattolici del mondo! Il Signore Gesù, nostra Vita, come Buon Samaritano versi sulle ferite del vostro corpo e della vostra anima l’olio della consolazione e il vino della speranza.

Pensandovi, torna alla memoria il pellegrinaggio che ho compiuto in mezzo a voi dieci anni fa; e faccio mie le parole che San Paolo VI, primo Successore di Pietro pellegrino in Terra Santa, rivolse a tutti i credenti cinquant’anni fa: «Il protrarsi dello stato di tensione nel Medio Oriente, senza che siano compiuti passi conclusivi verso la pace, costituisce un grave e costante pericolo, che minaccia non solo la tranquillità e la sicurezza di quelle popolazioni – e la pace del mondo intero – ma anche certi valori sommamente cari, per diversi motivi, a tanta parte dell’umanità» (Esort. Ap. Nobis in Animo).

Cari fratelli e sorelle, la comunità cristiana di Terra Santa non è stata soltanto, lungo i secoli, custode dei Luoghi della salvezza, ma ha costantemente testimoniato, attraverso le proprie sofferenze, il mistero della Passione del Signore. E, con la sua capacità di rialzarsi e andare avanti, ha annunciato e continua ad annunciare che il Crocifisso è Risorto, che con i segni della Passione è apparso ai discepoli e salito al cielo, portando al Padre la nostra umanità tormentata ma redenta. In questi tempi oscuri, in cui sembra che le tenebre del Venerdì santo ricoprano la vostra Terra e troppe parti del mondo sfigurate dall’inutile follia della guerra, che è sempre e per tutti una sanguinosa sconfitta, voi siete fiaccole accese nella notte; siete semi di bene in una terra lacerata da conflitti.

Per voi e con voi prego: “Signore, tu che sei la nostra pace (cfr Ef 2,14-22), tu che hai proclamato beati gli operatori di pace (cfr Mt 5,9), libera il cuore dell’uomo dall’odio, dalla violenza e dalla vendetta. Noi guardiamo te e seguiamo te, che perdoni, che sei mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29). Fa’ che nessuno ci rubi dal cuore la speranza di rialzarci e di risorgere con te, fa’ che non ci stanchiamo di affermare la dignità di ogni uomo, senza distinzione di religione, di etnia o di nazionalità, a partire dai più fragili: dalle donne, dagli anziani, dai piccoli e dai poveri”.

Fratelli, sorelle, voglio dirvi: non siete soli e non vi lasceremo soli, ma rimarremo solidali con voi attraverso la preghiera e la carità operosa, sperando di poter tornare presto da voi come pellegrini, per guardarvi negli occhi e abbracciarvi, per spezzare il pane della fraternità e contemplare quei virgulti di speranza cresciuti dai vostri semi, sparsi nel dolore e coltivati con pazienza.

So che i vostri Pastori, i religiosi e le religiose vi sono vicini: li ringrazio di cuore per quanto hanno fatto e continuano a fare. Cresca e risplenda, nel crogiolo della sofferenza, l’oro dell’unità, anche con i fratelli e le sorelle delle altre Confessioni cristiane, ai quali pure desidero manifestare la mia spirituale vicinanza ed esprimere il mio incoraggiamento. Tutti porto nella preghiera.

Vi benedico e invoco su di voi la protezione della Beata Vergine Maria, figlia della vostra Terra. Rinnovo l’invito a tutti i cristiani del mondo a farvi sentire il loro sostegno concreto e a pregare senza stancarsi, perché l’intera popolazione della vostra cara Terra sia finalmente nella pace.

Fraternamente, 

Roma, San Giovanni in Laterano, Settimana Santa 2024
 

FRANCESCO

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<![CDATA[Udienza Generale del 27 marzo 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 13. <i>La pazienza</i>]]>Wed, 27 Mar 2024 09:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240327-udienza-generale.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240327-udienza-generale.html

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.


Catechesi. I vizi e le virtù. 13. La pazienza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi l’udienza era prevista in Piazza, ma per la pioggia è stata trasferita qui dentro. È vero che sarete un po’ ammucchiati, ma almeno saremo non bagnati! Grazie della vostra pazienza.

Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto della Passione del Signore. Alle sofferenze che subisce, Gesù risponde con una virtù che, pur non contemplata tra quelle tradizionali, è tanto importante: la virtù della pazienza. Essa riguarda la sopportazione di ciò che si patisce: non a caso pazienza ha la stessa radice di passione. E proprio nella Passione emerge la pazienza di Cristo, che con mitezza e mansuetudine accetta di essere arrestato, schiaffeggiato e condannato ingiustamente; davanti a Pilato non recrimina; sopporta gli insulti, gli sputi e la flagellazione dei soldati; porta il peso della croce; perdona chi lo inchioda al legno e sulla croce non risponde alle provocazioni, ma offre misericordia. Questa è la pazienza di Gesù. Tutto questo ci dice che la pazienza di Gesù non consiste in una stoica resistenza nel soffrire, ma è il frutto di un amore più grande.

L’Apostolo Paolo, nel cosiddetto “Inno alla carità” (cfr 1 Cor 13,4-7), congiunge strettamente amore e pazienza. Infatti, nel descrivere la prima qualità della carità, utilizza una parola che si traduce con “magnanima”, “paziente”. La carità è magnanima, è paziente. Essa esprime un concetto sorprendente, che torna spesso nella Bibbia: Dio, di fronte alla nostra infedeltà, si mostra «lento all’ira» (cfr Es 34,6; cfr Nm 14,18): anziché sfogare il proprio disgusto per il male e il peccato dell’uomo, si rivela più grande, pronto ogni volta a ricominciare da capo con infinita pazienza. Questo per Paolo è il primo tratto dell’amore di Dio, che davanti al peccato propone il perdono. Ma non solo: è il primo tratto di ogni grande amore, che sa rispondere al male col bene, che non si chiude nella rabbia e nello sconforto, ma persevera e rilancia. La pazienza che ricomincia. Dunque, alla radice della pazienza c’è l’amore, come dice Sant’Agostino: «Uno è tanto più forte a sopportare qualunque male, quanto in lui è maggiore l’amore di Dio» (De patientia, XVII).

Si potrebbe allora dire che non c’è migliore testimonianza dell’amore di Gesù che incontrare un cristiano paziente. Ma pensiamo anche a quante mamme e papà, lavoratori, medici e infermieri, ammalati che ogni giorno, nel nascondimento, abbelliscono il mondo con una santa pazienza! Come afferma la Scrittura, «è meglio la pazienza che la forza di un eroe» (Pr 16,32). Tuttavia, dobbiamo essere onesti: siamo spesso carenti di pazienza. Nel quotidiano siamo impazienti, tutti. Ne abbiamo bisogno come della “vitamina essenziale” per andare avanti, ma ci viene istintivo spazientirci e rispondere al male col male: è difficile stare calmi, controllare l’istinto, trattenere brutte risposte, disinnescare litigi e conflitti in famiglia, al lavoro o nella comunità cristiana. Subito viene la risposta, non siamo capaci di essere pazienti.

Ricordiamo però che la pazienza non è solo una necessità, è una chiamata: se Cristo è paziente, il cristiano è chiamato a essere paziente. E ciò chiede di andare controcorrente rispetto alla mentalità oggi diffusa, in cui dominano la fretta e il “tutto subito”; dove, anziché attendere che maturino le situazioni, si spremono le persone, pretendendo che cambino all’istante. Non dimentichiamo che la fretta e l’impazienza sono nemiche della vita spirituale. Perché? Dio è amore, e chi ama non si stanca, non è irascibile, non dà ultimatum, Dio è paziente, Dio sa attendere. Pensiamo al racconto del Padre misericordioso, che aspetta il figlio andato via di casa: soffre con pazienza, impaziente solo di abbracciarlo appena lo vede tornare (cfr Lc 15,21); o pensiamo alla parabola del grano e della zizzania, con il Signore che non ha fretta di sradicare il male prima del tempo, perché nulla vada perduto (cfr Mt 13,29-30). La pazienza ci fa salvare tutto.

Ma, fratelli e sorelle, come si fa ad accrescere la pazienza? Essendo, come insegna San Paolo, un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22), va chiesta proprio allo Spirito di Cristo. Lui ci dà la forza mite della pazienza – è una forza mite la pazienza –, perché «è proprio della virtù cristiana non solo operare il bene, ma anche saper sopportare i mali» (S. Agostino, Discorsi, 46,13). Specialmente in questi giorni ci farà bene contemplare il Crocifisso per assimilarne la pazienza. Un bell’esercizio è anche quello di portare a Lui le persone più fastidiose, domandando la grazia di mettere in pratica nei loro riguardi quell’opera di misericordia tanto nota quanto disattesa: sopportare pazientemente le persone moleste. E non è facile. Pensiamo se noi facciamo questo: sopportare pazientemente le persone moleste. Si comincia dal chiedere di guardarle con compassione, con lo sguardo di Dio, sapendo distinguere i loro volti dai loro sbagli. Noi abbiamo l’abitudine di catalogare le persone con gli sbagli che fanno. No, non è buono questo. Cerchiamo le persone per i loro volti, per il loro cuore e non per gli sbagli!

Infine, per coltivare la pazienza, virtù che dà respiro alla vita, è bene ampliare lo sguardo. Ad esempio, non restringendo il campo del mondo ai nostri guai, come invita a fare l’Imitazione di Cristo: «Occorre dunque che tu rammenti le sofferenze più gravi degli altri, per imparare a sopportare le tue, piccole», ricordando che «non c’è cosa, per quanto piccola, purché sopportata per amore di Dio, che passi senza ricompensa presso Dio» (III, 19). E ancora, quando ci sentiamo nella morsa della prova, come insegna Giobbe, è bene aprirsi con speranza alla novità di Dio, nella ferma fiducia che Egli non lascia deluse le nostre attese. Pazienza è saper sopportare i mali.

E qui oggi, in questa udienza, ci sono due persone, due papà: uno israeliano e uno arabo. Ambedue hanno perso le loro figlie in questa guerra e ambedue sono amici. Non guardano all’inimicizia della guerra, ma guardano l’amicizia di due uomini che si vogliono bene e che sono passati per la stessa crocifissione. Pensiamo a questa testimonianza tanto bella di queste due persone che hanno sofferto nelle loro figlie la guerra della Terra Santa. Cari fratelli, grazie per la vostra testimonianza!

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier:  le Club Guerlédan de Rennes. Que la contemplation de la Passion du Seigneur nous donne la force de persévérer humblement dans la foi malgré les épreuves de la vie. Que Dieu vous bénisse.

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare il Club Guerlédan di Rennes. La contemplazione della Passione del Signore ci dia la forza di perseverare umilmente nella fede nonostante le prove della vita. Dio vi benedica.]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors participating in today’s Audience, especially the groups from the Philippines, Pakistan, Canada and the United States of America.  As we prepare for the Sacred Triduum, I invoke upon all of you the grace and peace of our Lord Jesus Christ.  God bless you!  

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese che partecipano all’Udienza di oggi, specialmente ai gruppi provenienti da Filippine, Pakistan, Canada e Stati Uniti d’America. Preparandoci al Sacro Triduo, invoco su tutti voi la grazia e la pace di nostro Signore Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Einen herzlichen Gruß richte ich an die Pilger deutscher Sprache. Die Karwoche recht leben, bedeutet sich immer mehr auf die Logik der Liebe Gottes einzulassen, die Logik der Liebe und der Hingabe. Die Feier des Heiligen Triduums stärke uns in der Nachfolge Christi und lasse uns an seinem Ostersieg Anteil erlangen.

[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua tedesca. Vivere in modo giusto la Settimana Santa, significa entrare sempre più nella logica di Dio, quella dell’amore e del dono di sé. La celebrazione del Triduo Santo ci rafforzi nell’imitazione di Cristo e ci renda partecipi della sua vittoria pasquale.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, de manera especial a los participantes en el Encuentro UNIV 2024. Los invito a vivir estos días santos contemplando a Cristo crucificado, que con su ejemplo nos enseña a amar y a ser pacientes, en la espera gozosa de la Resurrección. Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Dou as boas-vindas a todos os peregrinos de língua portuguesa, de modo particular aos fiéis brasileiros de São Carlos. Nos dias do Tríduo Pascal, somos convidados a contemplar, em silêncio orante, o Crucifixo. Isto ajudar-nos-á a crescer, à semelhança de Jesus, na humildade e na paciência, das quais o nosso tempo tem tanta necessidade. Obrigado.

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua portoghese, in particolare ai fedeli brasiliani di São Carlos. Nei giorni del Triduo Pasquale, siamo invitati a contemplare, nel silenzio orante, il Crocifisso. Ci aiuterà a crescere nell’umiltà e nella pazienza a somiglianza di Gesù. E il nostro tempo ne ha tanto bisogno. Grazie.]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ بِاللُّغَةِ العَرَبِيَّة. باقتِرابِ عيدِ الفِصح، لِنَحمِلْ فِي أذهانِنا وفِي قُلوبِنا آلامَ المرضَى والفُقراءِ والمُهَمَّشِين، ولْنَتَذَكَّرْ ضحايا الحروبِ الأبرِياء، حتَّى يَمنَحَهُم المسيحُ جميعًا، بقِيامَتِهِ مِن بَينِ الأموات، السَّلامَ والتَّعزِيَة. باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Avvicinandosi la festa della Pasqua, portiamo nella mente e nel cuore le sofferenze dei malati, dei poveri e degli emarginati, ricordando anche le vittime innocenti delle guerre, affinché il Cristo, con la sua Resurrezione, conceda a tutti la pace e la consolazione. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Serdecznie pozdrawiam pielgrzymów polskich. W tych dniach mocno przemawia do nas prawda o bezgranicznej miłości Boga do grzesznego człowieka. Skoro Bóg tyle wycierpiał, by okazać każdemu z nas swoje miłosierdzie, jesteśmy wezwani aby otworzyć nasze serca na tę miłość, okazując także wielką cierpliwość bliźniemu. Z serca Wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. In questi giorni, ci parla con forza la verità dell’amore sconfinato di Dio verso l’uomo peccatore. Poiché Dio ha sofferto così tanto per mostrare la sua misericordia a ciascuno di noi, siamo chiamati ad aprire i nostri cuori a questo amore, mostrando anche una grande pazienza verso il prossimo. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana: parrocchie, associazioni e scuole, in particolare agli alunni dell’Istituto Marconi di Gorgonzola e a quelli dell’Istituto Carlo Alberto Dalla Chiesa di Afragola.

Nell’intenso clima spirituale della Settimana Santa, saluto con affetto i giovani, i malati, gli anziani e gli sposi novelli. Invito ciascuno a vivere questi giorni nella preghiera, per aprirsi alla grazia di Cristo Redentore, fonte di gioia e di misericordia.

Fratelli e sorelle, preghiamo per la pace. Che il Signore ci dia la pace nella martoriata Ucraina, che sta soffrendo tanto sotto i bombardamenti; anche in Israele e Palestina, che ci sia la pace nella Terra Santa. Che il Signore dia la pace a tutti, come dono della sua Pasqua!

A tutti la mia Benedizione.

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<![CDATA[Videomessaggio del Santo Padre ai fedeli di Rosario (26 marzo 2024)]]>Tue, 26 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240326-videomessaggio-fedeli-argentina.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240326-videomessaggio-fedeli-argentina.html

Cari fratelli e sorelle di Rosario,

Mi viene in mente in questo momento un versetto del Vangelo di Matteo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5, 9). È una delle beatitudini. E in un momento di crisi, come quelli che vive la città del Rosario, comprendiamo il bisogno della presenza delle forze di sicurezza per portare tranquillità alla comunità. Tuttavia sappiamo che nel cammino della pace si devono percorrere risposte complesse e integrali, con la collaborazione di tutte le istituzioni che formano la vita di una società. È necessario rafforzare la comunità. Ogni popolo ha in sé gli strumenti per superare ciò che attenta alla sua integrità, alla vita dei suoi figli più deboli.  Contro te che attenti, bisogna rafforzare la comunità.  Nessuna persona di buona volontà può sentirsi né essere esclusa dal grande compito di far sì che Rosario sia un luogo in cui tutti possano sentirsi fratelli.

Senza complicità di un settore del potere politico, giudiziario, economico, finanziario e della polizia non sarebbe possibile arrivare alla situazione in cui si trova la città di Rosario. È necessario «rivalutare la politica, che “è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”» (Lettera enciclica Fratelli tutti, n. 180).  Tutti i settori politici sono chiamati a percorrere il grande cammino del consenso e del dialogo per generare leggi e politiche pubbliche che accompagnino un processo di recupero del tessuto sociale. L’alternanza delle amministrazioni deve sostenere la continuità dei processi di cambiamento. Occorre lavorare non solo sull’offerta, ma anche sulla domanda di droghe, attraverso politiche di prevenzione e di assistenza. Il silenzio dello Stato in questo campo fa solo sembrare naturale e facilita la promozione del consumo di droghe e la loro commercializzazione.

In un contesto come questo, è necessario che il sistema democratico vegli sull’istituzionalità della giustizia, di modo che possa essere indipendente, per indagare sulle reti della corruzione e del riciclaggio di denaro che favoriscono l’avanzare del narcotraffico. Ogni membro del potere giudiziario è responsabile di custodire la sua integrità, il che inizia dalla rettitudine del suo cuore. Allo stesso modo, vanno ringraziati tutti quegli uomini e quelle donne che, con il loro silenzioso impegno con la giustizia, tante volte mettono a rischio la propria vita per il bene comune in un contesto spesso disumanizzato.

«L’imprenditore è una figura fondamentale di ogni buona economia: non c’è buona economia senza buon imprenditore». Purtroppo, non c’è neppure una cattiva economia senza la complicità di una parte del settore privato. Si prospetta quindi un grande compito nel settore imprenditoriale, non solo impedendo la complicità negli affari con le organizzazioni mafiose, ma anche impegnandosi socialmente. Ci sono grandi esempi di ciò nella vita dell’imprenditoria argentina, tra i quali quello di Enrique Shaw. Nessuno si salva da solo, anche nei quartieri privati si possono trovare l’insicurezza e la minaccia del consumo per i propri figli. La pace è un’impresa che esige la creatività e l’impegno di tutti coloro che hanno il dono d’intraprendere e d’innovare, e voi sapete come farlo. Grazie per questo.

Dato che, in ogni sistema mafioso, i poveri sono il materiale “usa e getta”, vi invito a compiere sforzi e a unire sforzi affinché lo Stato e le istituzioni intermedie possano offrire spazi comunitari nei quartieri vulnerabili. E possono anche creare condizioni affinché i bambini, gli adolescenti e i giovani abbiano uno sviluppo umano integrale, per un futuro migliore di quello che hanno avuto i loro genitori e i loro nonni. Tutti noi — istituzioni sociali, civili e religiose — dobbiamo essere uniti per fare ciò che sappiamo fare meglio: creare comunità.  Rosario può contare su una grande ricchezza di istituzioni al servizio degli altri. È una ricchezza che voi avete. Tutti possiamo collaborare e partecipare agli spazi sportivi, educativi e comunitari. Il timore isola sempre, il timore paralizza. Non dovete aver paura d’impegnarvi insieme ad altri per essere risposta pacifica e ispiratrice.

Fratelli e sorelle, la Chiesa, come Madre e samaritana, è sempre chiamata ad accompagnare spiritualmente e organicamente i familiari delle vittime che hanno perso la vita a causa della violenza, accompagnare i malati, accompagnare quanti vivono la piaga delle dipendenze e i loro familiari, accompagnare quanti si trovano in carcere e hanno poi bisogno di un cammino di reinserimento, accompagnare quanti vivono in situazioni di vulnerabilità estrema.  La parrocchia è la Chiesa che si fa vicina, è la comunità dove tutti possono sentirsi amati. Per molti bambini, adolescenti e giovani vulnerabili sarà forse l’unica esperienza di famiglia che avranno l’opportunità di conoscere. In questi tempi, l’amore, la carità, sarà l’annuncio più esplicito del Vangelo per una società che si sente minacciata.

Cari fratelli e sorelle di Rosario, vi sono vicino. La Vergine del Rosario intercede giorno e notte per tutti i suoi figli, soprattutto, come sono solite fare le mamme, con un’attenzione speciale per quanti hanno maggiori fragilità. Che Dio vi benedica, un abbraccio.

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L’Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 70, martedì 26 marzo 2024, p. 8.

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<![CDATA[Messaggio del Santo Padre per il 5° anniversario dell'Esortazione Apostolica Christus Vivit (25 marzo 2024)]]>Mon, 25 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240325-messaggio-christus-vivit.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240325-messaggio-christus-vivit.html

Cari giovani,

Cristo vive e vi vuole vivi! È una certezza che sempre riempie di gioia il mio cuore e che mi spinge ora a scrivervi questo messaggio, a cinque anni dalla pubblicazione dell’Esortazione apostolica Christus vivit, frutto dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi che aveva come tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.

Vorrei anzitutto che le mie parole ravvivassero in voi la speranza. Nell’attuale contesto internazionale, infatti, segnato da tanti conflitti, da tante sofferenze, posso immaginare che molti di voi si sentano scoraggiati. Perciò desidero ripartire insieme a voi dall’annuncio che sta a fondamento della speranza per noi e per l’intera umanità: “Cristo vive!”.

Lo dico a ciascuno di voi in particolare: Cristo vive e ti ama, infinitamente. E il suo amore per te non è condizionato dalle tue cadute o dai tuoi errori. Lui, che ha dato la sua vita per te, non aspetta, per amarti, la tua perfezione. Guarda le sue braccia aperte sulla croce e «lasciati salvare sempre nuovamente» [1], cammina con Lui come con un amico, accoglilo nella tua vita e lasciagli condividere le gioie e le speranze, le sofferenze e le angosce della tua giovinezza. Vedrai che il tuo cammino si illuminerà e che anche i pesi più grandi diventeranno meno gravosi, perché ci sarà Lui a portarli con te. Per questo, invoca ogni giorno lo Spirito Santo, che «ti fa entrare sempre più nel cuore di Cristo, affinché tu sia sempre più colmo del suo amore, della sua luce e della sua forza» [2].

Quanto vorrei che questo annuncio arrivasse a ciascuno di voi, e che ognuno lo percepisse vivo e vero nella propria vita e sentisse il desiderio di condividerlo coi suoi amici! Sì, perché voi avete questa grande missione: testimoniare a tutti la gioia che nasce dall’amicizia con Cristo.

All’inizio del mio Pontificato, durante la GMG di Rio de Janeiro, vi ho detto con forza: fatevi sentire! “Hagan lio!”. E ancora oggi torno a chiedervelo: fatevi sentire, gridate, non tanto con la voce ma con la vita e con il cuore, questa verità: Cristo vive! Perché tutta la Chiesa sia spinta a rialzarsi, a mettersi sempre di nuovo in cammino e a portare il suo annuncio a tutto il mondo.

Il prossimo 14 aprile ricorderemo i 40 anni dal primo grande raduno dei giovani che, nel contesto dell’Anno Santo della Redenzione, fu il germoglio delle future Giornate Mondiali della Gioventù. Alla fine di quell’anno giubilare, nel 1984, San Giovanni Paolo II consegnò la Croce ai giovani con la missione di portarla in tutto il mondo come segno e ricordo che solo in Gesù morto e risorto c’è salvezza e redenzione. Come ben sapete, si tratta di una Croce di legno senza il Crocifisso, così voluta per ricordarci che essa celebra soprattutto il trionfo della Risurrezione, la vittoria della vita sulla morte, per dire a tutti: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» ( Lc 24,5-6). E voi Gesù contemplatelo così: vivo e traboccante di gioia, vincitore della morte, amico che vi ama e vuole vivere in voi [3].

Solo così, nella luce della sua presenza, la memoria del passato sarà feconda e avrete il coraggio di vivere il presente e affrontare il futuro con speranza. Potrete assumere con libertà la storia delle vostre famiglie, dei vostri nonni, dei vostri genitori, le tradizioni religiose dei vostri Paesi, per essere a vostra volta costruttori del domani, “artigiani” del futuro.

L’Esortazione Christus vivit è frutto di una Chiesa che vuole camminare insieme e che perciò si mette in ascolto, in dialogo e in costante discernimento della volontà del Signore. Per questo, più di cinque anni fa, in vista del Sinodo sui giovani, a tanti di voi, di varie parti del mondo, è stato chiesto di condividere le proprie attese e i propri desideri. Centinaia di giovani sono venuti a Roma e hanno lavorato insieme per alcuni giorni, raccogliendo idee da proporre: grazie al loro lavoro i Vescovi hanno potuto conoscere e approfondire una visione più ampia e profonda del mondo e della Chiesa. È stato un vero “esperimento sinodale”, che ha portato molti frutti e che ha preparato la strada anche per un nuovo Sinodo, quello che stiamo vivendo adesso, in questi anni, proprio sulla sinodalità. Come leggiamo nel Documento Finale del 2018, infatti, «la partecipazione dei giovani ha contribuito a “risvegliare” la sinodalità, che è una “dimensione costitutiva della Chiesa”» [4]. E ora, in questa nuova tappa del nostro percorso ecclesiale, abbiamo più che mai bisogno della vostra creatività per esplorare vie nuove, sempre nella fedeltà alle nostre radici.

Cari giovani, voi siete speranza viva di una Chiesa in cammino! Per questo vi ringrazio della vostra presenza e del vostro apporto alla vita del Corpo di Cristo. E mi raccomando: non fateci mai mancare il vostro chiasso buono, la vostra spinta come quella di un motore pulito e agile, il vostro modo originale di vivere e annunciare la gioia di Gesù Risorto! Per questo prego; e anche voi, per favore, pregate per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 marzo 2024, Lunedì Santo.

 

FRANCESCO

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[1] Esort. ap. postsin. Christus vivit, 123.

[2]  Ivi, 130.

[3] Cfr ivi, 126.

[4] Sinodo dei Vescovi, XV Assemblea Generale Ordinaria, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento Finale, 121.

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<![CDATA[Alla comunità dei Nigeriani in Roma (25 marzo 2024)]]>Mon, 25 Mar 2024 09:45:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240325-nigeriani-roma.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240325-nigeriani-roma.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Rivolgo un cordiale saluto e benvenuto a tutti voi, qui convenuti per celebrare i venticinque anni di presenza della comunità cattolica nigeriana a Roma. La data odierna, 25 marzo, coincide con una ricorrenza liturgica molto importante, cioè la Solennità dell’Annunciazione; quest’anno, però, a causa della Settimana Santa, l’Annunciazione viene spostata in un altro giorno. Queste due realtà, la prima che ci ricorda l’Incarnazione del Signore e l’altra che ci introduce nei misteri pasquali della salvezza, ci mostrano che il Verbo, che si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (cfr Gv 1,14), ha vissuto, è morto ed è risorto per realizzare la riconciliazione e la pace tra Dio e l’umanità. Egli ci ha donato la sua vita!

A questo proposito, vorrei soffermarmi brevemente su tre elementi che ritengo vitali per la vita della vostra comunità: la gratitudine, la ricchezza nella diversità e il dialogo.

Innanzitutto la gratitudine. Vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto e continuate a fare testimoniando il gioioso messaggio del Vangelo. Mi unisco a voi anche nel ringraziare Dio Onnipotente per i numerosi giovani nigeriani che hanno ascoltato la chiamata del Signore al sacerdozio e alla vita consacrata e hanno risposto con generosità, umiltà e perseveranza.  Ce ne sono alcuni qui tra di voi, giovani sacerdoti e giovani suore. A ciascun seguace di Gesù, infatti, secondo la sua particolare vocazione, è affidata la responsabilità di servire Dio e il prossimo nell’amore, rendendo Cristo presente nella vita dei fratelli. Possiate essere sempre discepoli missionari, grati che il Signore vi abbia scelti per seguirlo e vi abbia inviato a proclamare con zelo la nostra fede e a contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e umano.

In secondo luogo, la ricchezza nella diversità. Su questo, vorrei dire che la diversità di etnie, tradizioni culturali e lingue nella vostra Nazione non costituisce un problema, ma è un dono che arricchisce il tessuto della Chiesa come quello dell’intera società, e consente di promuovere i valori della comprensione reciproca e della convivenza. Spero che la vostra comunità qui a Roma, nell’accogliere e accompagnare i fedeli nigeriani e gli altri credenti, assomigli sempre a una grande famiglia inclusiva, dove tutti possano mettere a frutto i propri talenti diversi, che sono frutti dello Spirito Santo, per sostenervi e rafforzarvi a vicenda nei momenti di gioia e di dolore, di successo e di difficoltà. In questo modo, sarete in grado di seminare i semi dell’amicizia sociale e della concordia per le generazioni presenti e future.

E state attenti a un pericolo, il pericolo della chiusura: non essere universali ma chiudersi in un isolamento – mi permetto la parola – tribale. No. Le vostre radici si chiudono, si isolano in questo atteggiamento tribale e non universale, non comunitario. Comunità sì, tribù no. Questo è molto importante. E vale per tutti noi, per tutti, ognuno secondo la sua posizione. L’universalità è non chiudersi nella propria cultura. È vero, la propria cultura è un dono, ma non per chiuderlo: per darlo, per offrirlo. Universale, universalità.

E infine, cari fratelli e sorelle, il dialogo. Purtroppo, molte regioni del mondo stanno attraversando conflitti e sofferenze e anche la Nigeria sta vivendo un periodo di difficoltà. Nell’assicurarvi la mia preghiera per la sicurezza, l’unità e il progresso spirituale ed economico della vostra Nazione, invito tutti a favorire il dialogo e ad ascoltarsi a vicenda con cuore aperto, senza escludere nessuno a livello politico, sociale e religioso. Integrare, dialogare, universalizzare, sempre a partire dalla propria identità. Allo stesso tempo, vi incoraggio ad essere annunciatori della grande misericordia del Signore, operando per la riconciliazione tra tutti i vostri fratelli e sorelle, contribuendo ad alleviare il peso dei poveri e dei più bisognosi e facendo vostro lo stile di Dio. E qual è lo stile di Dio? Vicinanza, compassione e tenerezza. Non dimenticatevi questo. Lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. In questo modo tutti i nigeriani potranno continuare a camminare insieme nella solidarietà fraterna e nell’armonia.

Cari amici, vi ringrazio ancora una volta per la vostra presenza in questa città, nel cuore della Chiesa. È una grazia provvidenziale che vi offre l’opportunità di approfondire la consapevolezza della vostra chiamata battesimale a vivere sempre come fedeli discepoli del Signore, a dedicarvi al servizio di Dio e del suo popolo santo con la carità che Gesù ci chiede, e a celebrare la ricchezza della vostra peculiare eredità come nigeriani. Una grande ricchezza, sì, per donarla. Affido la vostra comunità alla protezione amorevole della Vergine Maria, Regina e Patrona della Nigeria, e di cuore vi benedico. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

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<![CDATA[Angelus, 24 marzo 2024, <i>Domenica delle Palme</i>]]>Sun, 24 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240324-angelus.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240324-angelus.html

Cari fratelli e sorelle,

esprimo la mia vicinanza alla Comunità San Josè de Apartado, in Colombia, dove alcuni giorni fa sono stati assassinati una giovane donna e un ragazzo. Questa Comunità nel 2018 è stata premiata come esempio di impegno per l’economia solidale, la pace e i diritti umani.

E assicuro la mia preghiera per le vittime del vile attentato terroristico compiuto l’altra sera a Mosca. Il Signore le accolga nella sua pace e conforti le loro famiglie. Egli converta i cuori di quanti progettano, organizzano e attuano queste azioni disumane, che offendono Dio, il quale ha comandato: «Non ucciderai» (Es 20,13).

Saluto tutti voi, fedeli di Roma e pellegrini di vari Paesi. In particolare saluto la delegazione della città di Sanremo, che anche quest’anno, fedele a una tradizione di quattro secoli, ha offerto le foglie di palma intrecciate per questa celebrazione. Grazie, Sanremesi! Il Signore vi benedica.

Cari fratelli e sorelle, Gesù è entrato in Gerusalemme come Re umile e pacifico: apriamo a Lui i nostri cuori! Solo Lui ci può liberare dall’inimicizia, dall’odio, dalla violenza, perché Lui è la misericordia e il perdono dei peccati. Preghiamo per tutti i fratelli e le sorelle che soffrono a causa della guerra; in modo speciale penso alla martoriata Ucraina, dove tantissima gente si trova senza elettricità a causa degli intensi attacchi contro le infrastrutture che, oltre a causare morti e sofferenze, comportano il rischio di una catastrofe umanitaria di ancora più ampie dimensioni. Per favore, non dimentichiamo la martoriata Ucraina! E pensiamo a Gaza, che soffre tanto, e a tanti altri luoghi di guerra.

Ed ora ci rivolgiamo in preghiera alla Vergine Maria: impariamo da Lei a stare vicino a Gesù nei giorni della Settimana Santa, per arrivare alla gioia della Risurrezione.

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<![CDATA[Ai dirigenti e al personale della RAI-Radiotelevisione Italiana (23 marzo 2024)]]>Sat, 23 Mar 2024 09:45:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240323-rai.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240323-rai.html

Cari amici, buongiorno e benvenuti!

Saluto l’Amministratore delegato, il Direttore generale, i membri del Consiglio di Amministrazione, i dirigenti, i giornalisti, i collaboratori, gli artisti, i tecnici, e le vostre famiglie. È bello che siate qui come una grande comunità. Sono contento di incontrarvi e auguro a tutti voi un buon anniversario!

Settant’anni di televisione, cento di radio: un doppio compleanno, che da un lato vi invita a guardare indietro, alla vostra storia, tanto intrecciata con quella italiana; e dall’altro vi sfida a guardare avanti, al futuro, al ruolo che avrete in un tempo tutto da costruire, dove ogni vita è sempre più connessa con le altre, a livello globale. Inoltre, siamo in Vaticano, e molti di voi conoscono bene questi luoghi, perché la RAI fin dalla sua nascita ha sempre seguito da vicino i passi dei Successori di Pietro.

Essa, però, in tutti questi anni, non è stata solo testimone dei processi di cambiamento della nostra società: in parte, li ha anche costruiti, e da protagonista. I media, infatti, influiscono sulle nostre identità, nel bene e nel male. E qui è il senso del servizio pubblico che svolgete. Perciò vorrei riflettere con voi proprio su queste due parole – servizio e pubblico –, perché esse descrivono molto bene il fondamento della vostra missione: la comunicazione come dono alla comunità.

La prima parola, su cui mi soffermerò di più, è servizio. È una parola che spesso riduciamo al suo significato strumentale, finendo per confondere il servire con il servirsi, la dedizione con l’uso.

Il vostro lavoro, invece, vuole essere soprattutto una risposta ai bisogni dei cittadini, in spirito di apertura universale, con un’azione capace di articolarsi sul territorio senza diventare localista, nel rispetto e nella promozione della dignità di ogni persona. Un contributo alla verità e al bene comune che assume risvolti precisi nell’informazione, nell’intrattenimento, nella cultura e nella tecnologia.

Nel campo dell’informazione, servire significa essenzialmente cercare e promuovere la verità, tutta la verità, ad esempio contrastando il diffondersi delle fake news e il subdolo disegno di chi cerca di influenzare l’opinione pubblica in modo ideologico, mentendo e disgregando il tessuto sociale. La verità è una, è armonica, non si può dividere con gli interessi personali.

Significa evitare ogni riduzione ingannevole, ricordando che la verità è “sinfonica” e che la si coglie meglio imparando ad ascoltare la varietà delle voci – come in un coro – piuttosto che gridando sempre e soltanto la propria idea. Ho voluto sottolineare questo.

Significa, ancora, servire il diritto dei cittadini a una corretta informazione, trasmessa senza pregiudizi, non traendo conclusioni affrettate ma prendendo il tempo necessario per capire e per riflettere e combattendo l’inquinamento cognitivo,perché anche l’informazione dev’essere “ecologica”.

Significa, infine, garantire un pluralismo rispettoso delle diverse opinioni e fonti perché, come già affermava San Giovanni Paolo II, «la verità […], anche quando la si è raggiunta — e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile — non può mai essere imposta. La verità è proposta, mai imposta. Il rispetto della coscienza altrui, nella quale si riflette l’immagine stessa di Dio (cfr Gen 1,26-27), consente solo di proporre la verità all'altro, al quale spetta poi di responsabilmente accoglierla» (Messaggio per la XXXV Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2002). Per questo vi esorto a coltivare il dialogo, tessendo trame di unità. E per coltivare il dialogo bisogna ascoltare. Tante volte vediamo che l’ascolto serve a prepararmi per dare la risposta, ma non è vero ascolto pensare alla mia posizione senza ricevere quella degli altri.

Il vostro servizio pubblico però non riguarda solo l’informazione. Il pluralismo riguarda anche i linguaggi della comunicazione. Penso al cinema, alla fiction, alle serie tv, ai programmi culturali e di intrattenimento, al racconto dello sport, ai programmi per bambini. In proposito, nella nostra epoca ricca di tecnica ma a volte povera di umanità, è importante promuovere la ricerca della bellezza, avviare dinamiche di solidarietà, custodire la libertà, lavorare perché ogni espressione artistica aiuti tutti e ciascuno ad elevarsi, a riflettere, a emozionarsi, a sorridere e anche a piangere di commozione, per trovare nella vita un senso, una prospettiva di bene, un significato che non sia quello di arrendersi al peggio.

Quanto alla tecnica e alla tecnologia, poi, sono tante le domande che ci interpellano. In particolare oggi «è necessario agire preventivamente, proponendo modelli di regolamentazione etica per arginare i risvolti dannosi e discriminatori, socialmente ingiusti, dei sistemi di intelligenza artificiale e per contrastare il loro utilizzo nella riduzione del pluralismo, nella polarizzazione dell’opinione pubblica o nella costruzione di un pensiero unico» (Messaggio per la LVIII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2024).

Dunque, tutto questo era riferito al servizio. Veniamo ora alla seconda parola: pubblico.Essa sottolinea prima di tutto che il vostro lavoro è connesso al bene comune di tutti e non solo di qualcuno. Ciò comporta in primo luogo l’impegno a considerare e a dar voce specialmente agli ultimi, ai più poveri, a chi non ha voce, a chi è scartato.

Implica inoltre la vocazione ad essere strumento di crescita nella conoscenza, a far riflettere e non ad alienare, ad aprire nuovi sguardi sulla realtà e non ad alimentare bolle di indifferenza autosufficiente, a educare i giovani a sognare in grande, con la mente e gli occhi aperti. Questa parola può spaventarci: sognare. Non perdere mai le capacità di sognare, ma sognare alla grande!

L’intero sistema dei media, in questo senso, a livello globale, ha bisogno di essere provocato e stimolato a uscire da sé e a mettersi in discussione, per guardare al di là, oltre. Ed è, questa, una responsabilità alla quale non potete sottrarvi, se volete tenere alto il livello della comunicazione. Non bisogna inseguire gli ascolti a scapito dei contenuti: si tratta piuttosto di costruire, attraverso la vostra offerta, una domanda diffusa di qualità. Del resto la comunicazione, proprio in quanto dialogo per il bene di tutti, può svolgere nel nostro tempo un ruolo fondamentale anche nel ritessere valori socialmente vitali come la cittadinanza e la partecipazione.

Cari fratelli e sorelle, la RAI entra ogni giorno in tante case italiane, praticamente in tutte, ed è bello pensare alla sua presenza non come a una “cattedra di tuttologi”, ma a un gruppo di amici che bussano alla porta per fare una sorpresa – non dimenticare questo: la vera comunicazione è sempre una sorpresa, ti sorprende: tu aspetti una cosa e ti sorprende –, per offrire compagnia, per condividere gioie e dolori, per promuovere in famiglia e nella società unità e riconciliazione, ascolto e dialogo, per informare e anche per mettersi in ascolto, con rispetto e umiltà. Vi incoraggio a camminare su questa strada, è bella!

Invoco su di voi la benedizione di Dio, affidando ciascuno alla materna intercessione di Maria Santissima. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

Dopo la benedizione:

Un tempo i Papi usavano la sedia gestatoria, oggi le cose sono andate avanti e uso questa, che è molto pratica!

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<![CDATA[Messaggio del Santo Padre nel 420° anniversario della Confraternita di Gesù Nazareno di Sonsonate (El Salvador) (22 marzo 2024)]]>Fri, 22 Mar 2024 08:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240322-messaggio-el-salvador.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240322-messaggio-el-salvador.html

A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. Constantino Barrera
Vescovo di Sonsonate
e a tutti i devoti di Gesù Nazareno

Cari fratelli e sorelle,

Vi ringrazio per avermi reso partecipe della commemorazione dell’arrivo dell’immagine di Gesù Nazareno in queste terre, nel 1604, e per l’opportunità di unirmi alla vostra celebrazione in questo solenne santo Venerdì.

È significativo vedere come il Signore si avvale del nostro povero linguaggio per farci giungere il messaggio divino. Anche oggi attendiamo, come fecero i nostri antenati più di 400 anni fa, di vedere apparire l’immagine di Gesù Nazareno. Ma, che cosa vogliamo vedere? Una bella statua? Un’opera d’arte preziosa? Il trambusto della gente? Niente di tutto ciò, come ogni anno, se ci affacciamo alla porta delle nostre case è per vedere giungere Gesù, ricordando, in qualche modo, l’atteggiamento del Popolo d’Israele, quando, ognuno all’ingresso della propria tenda, seguiva con lo sguardo Mosè che andava incontro alla Gloria di Dio (cfr. Es 33, 8).

Come Mosè, anche noi possiamo salire alla presenza del Signore per conversare con Lui, “faccia a faccia, come un uomo parla con un amico” (cfr. 11). Lo possiamo fare nella preghiera, se imitiamo la sua fede. In quella preghiera Mosè chiedeva al Signore qualcosa che anche noi cerchiamo, che “gli indicasse la sua via” (cfr. Es 33, 13). Dio gli promise: “o camminerò con te e ti darò riposo” (v. 14), e con quella fiducia il profeta attraversò il deserto. Tuttavia, essendo Dio così grande, Mosè non ebbe l’opportunità di vedere il suo volto (cfr. v. 20) e dinanzi alle prove della vita spesso la sua fiducia venne meno. Noi, invece, sì possiamo contemplare il volto divino e sentire i suoi piedi camminare al nostro fianco. È questa la promessa che Dio ci fa quando il Nazareno devia i propri passi per entrare nel nostro quartiere, attraversare la nostra strada e fermarsi alla porta delle nostre case. Il suo sguardo di amore spogliato ci scruta e c’interpella, come fa con san Pietro, dicendoci: “mi ami?” (cfr. Lc 22, 61; Gv 21, 15-17).

Fratelli, nonostante la nostra indegnità, le nostre continue ingratitudini, rispondiamogli sempre con generosità: “Signore, tu lo sai che ti amo”. Perché, rispondendo così, replichiamo nella nostra vita l’atteggiamento degli israeliti, che restavano “prostrati”, ognuno all’ingresso della propria tenda, quando la Gloria di Dio discendeva su di loro (cfr. 10). In questo atteggiamento di adorazione, mostriamoci docili alle mozioni del suo Spirito che, come la nube di fuoco, guida i nostri passi in questo deserto (cfr. Es 40, 37).

Che triste sarebbe se ogni anno, in questo santo Venerdì, i nostri cuori rimanessero semplicemente a “guardare dal balcone” una curiosa scena, senza prostrarsi al passaggio di Gesù, senza sentire come Pietro il suo invito a seguirlo (cfr. Gv 21, 19). Che peccato se non comprendessimo che è aggrappati alla sua Croce che siamo capaci di camminare con Lui, e non percepissimo che è Lui che porta questo giogo affinché noi possiamo trovare il nostro riposo.

Fratelli, oggi il Signore, come ogni anno, come ogni istante, ci viene incontro, seguiamolo, portandolo sulle nostre spalle, consolandolo nella piaga aperta dei nostri fratelli che soffrono. Chiediamogli di mostrarci come dobbiamo “glorificare Dio” con la nostra vita, facendo del nostro servizio una lode, nel lavoro quotidiano, in famiglia, nell’impegno per creare una società più fraterna, in sostanza, nella testimonianza di bene che tutti possiamo dare, indipendentemente dalla vocazione a cui siamo stati chiamati (cfr. Gv 21, 19).

Che Gesù Nazareno dal Calvario vi benedica e sua Madre Addolorata vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente,

Roma, San Giovanni in Laterano, 22 marzo 2024, Venerdì di Dolore.

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 72, giovedì 28 marzo 2024, p. 10.

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<![CDATA[Lettera del Santo Padre a un gruppo di migranti riuniti a Lajas Blancas, Panama (21 marzo 2024)]]>Thu, 21 Mar 2024 08:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240321-lettera-migranti-panama.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240321-lettera-migranti-panama.html

Cari migranti,

Vorrei essere lì con voi in questo momento. Anche io sono figlio di migranti che sono partiti alla ricerca di un futuro migliore. Ci sono stati momenti in cui sono rimasti senza nulla, fino a patire la fame; con le mani vuote, ma con il cuore pieno di speranza.

Ringrazio i miei fratelli vescovi e gli agenti di pastorale che mi rappresentano davanti a voi. Essi sono il volto di una Chiesa madre che cammina con i suoi figli e le sue figlie, nei quali scopre il volto di Cristo e, come la Veronica, con affetto, offre sollievo e speranza nella via crucis della migrazione. Grazie per esservi impegnati con i nostri fratelli e le nostre sorelle migranti che rappresentano la carne sofferente di Cristo, quando si vedono costretti ad abbandonare la propria terra, ad affrontare i rischi e le tribolazioni di un cammino duro, non trovando altra via d’uscita.

Fratelli e sorelle migranti, non dimenticatevi mai della vostra dignità umana. Non abbiate paura di guardare gli altri negli occhi, perché non siete uno scarto, ma fate parte anche voi della famiglia umana e della famiglia dei figli di Dio. E grazie per essere lì riuniti.

Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente,

Roma, San Giovanni in Laterano, 21 marzo 2024

FRANCESCO

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 66, giovedì 21 marzo 2024, p. 8.

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<![CDATA[Udienza Generale del 20 marzo 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 12. <i>La prudenza</i>]]>Wed, 20 Mar 2024 09:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240320-udienza-generale.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240320-udienza-generale.html

Catechesi. I vizi e le virtù. 12. La prudenza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La catechesi di oggi la dedichiamo alla virtù della prudenza. Essa, insieme a giustizia, fortezza e temperanza forma le virtù cosiddette cardinali, che non sono prerogativa esclusiva dei cristiani, ma appartengono al patrimonio della sapienza antica, in particolare dei filosofi greci. Perciò uno dei temi più interessanti nell’opera di incontro e di inculturazione fu proprio quello delle virtù.

Negli scritti medievali, la presentazione delle virtù non è una semplice elencazione di qualità positive dell’anima. Riprendendo gli autori classici alla luce della rivelazione cristiana, i teologi hanno immaginato il settenario delle virtù – le tre teologali e le quattro cardinali – come una sorta di organismo vivente, dove ogni virtù ha uno spazio armonico da occupare. Ci sono virtù essenziali e virtù accessorie, come pilastri, colonne e capitelli. Ecco, forse niente quanto l’architettura di una cattedrale medievale può restituire l’idea dell’armonia che c’è nell’uomo e della sua continua tensione verso il bene.

Dunque, partiamo dalla prudenza. Essa non è la virtù della persona timorosa, sempre titubante circa l’azione da intraprendere. No, questa è un’interpretazione sbagliata. Non è nemmeno solo la cautela. Accordare un primato alla prudenza significa che l’azione dell’uomo è nelle mani della sua intelligenza e libertà. La persona prudente è creativa: ragiona, valuta, cerca di comprendere la complessità del reale e non si lascia travolgere dalle emozioni, dalla pigrizia, dalle pressioni dalle illusioni.

In un mondo dominato dall’apparire, dai pensieri superficiali, dalla banalità sia del bene che del male, l’antica lezione della prudenza merita di essere recuperata.

San Tommaso, sulla scia di Aristotele, la chiamava “recta ratio agibilium”. È la capacità di governare le azioni per indirizzarle verso il bene; per questo motivo essa è soprannominata il “cocchiere delle virtù”. Prudente è colui o colei che è capace di scegliere: finché resta nei libri, la vita è sempre facile, ma in mezzo ai venti e alle onde del quotidiano è tutt’altra cosa, spesso siamo incerti e non sappiamo da che parte andare. Chi è prudente non sceglie a caso: anzitutto sa che cosa vuole, quindi pondera le situazioni, si fa consigliare e, con visione ampia e libertà interiore, sceglie quale sentiero imboccare. Non è detto che non possa sbagliare, in fondo restiamo sempre umani; ma almeno eviterà grosse sbandate. Purtroppo, in ogni ambiente c’è chi tende a liquidare i problemi con battute superficiali o a sollevare sempre polemiche. La prudenza invece è la qualità di chi è chiamato a governare: sa che amministrare è difficile, che i punti di vista sono tanti e bisogna cercare di armonizzarli, che si deve fare non il bene di qualcuno ma di tutti.

La prudenza insegna anche che, come si suol dire, “l’ottimo è nemico del bene”. Il troppo zelo, infatti, in qualche situazione può combinare disastri: può rovinare una costruzione che avrebbe richiesto gradualità; può generare conflitti e incomprensioni; può addirittura scatenare la violenza.

La persona prudente sa custodire la memoria del passato, non perché ha paura del futuro, ma perché sa che la tradizione è un patrimonio di saggezza. La vita è fatta di un continuo sovrapporsi di cose antiche e cose nuove, e non fa bene pensare sempre che il mondo cominci da noi, che i problemi dobbiamo affrontarli partendo da zero. E la persona prudente è anche previdente. Una volta decisa la meta a cui tendere, bisogna procurarsi tutti i mezzi per raggiungerla.

Tanti passi del Vangelo ci aiutano a educare la prudenza. Ad esempio: è prudente chi costruisce la sua casa sulla roccia e imprudente chi la costruisce sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27). Sagge sono le damigelle che portano con sé l’olio per le loro lampade e stolte quelle che non lo fanno (cfr Mt 25,1-13). La vita cristiana è un connubio di semplicità e di scaltrezza. Preparando i suoi discepoli per la missione, Gesù raccomanda: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Come dire che Dio non ci vuole solo santi, ci vuole santi intelligenti, perché senza la prudenza è un attimo sbagliare strada!

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Saluti

Je salue cordialement les personnes de langue française, particulièrement les jeunes provenant des établissements scolaires de France et leurs accompagnateurs. Frères et sœurs, à l’école de saint Joseph, que nous venons de fêter, apprenons à redécouvrir les vertus de courage et de prudence afin d’accomplir efficacement notre mission de baptisés dans notre société actuelle. Que Dieu vous bénisse !

[Rivolgo il mio cordiale saluto alle persone di lingua francese, in particolare ai giovani provenienti dagli Istituti scolastici di Francia e ai loro accompagnatori. Fratelli e sorelle, alla scuola di San Giuseppe, che abbiamo appena celebrato, impariamo a riscoprire le virtù del coraggio e della prudenza per svolgere efficacemente la nostra missione di battezzati nella società odierna. Dio vi benedica!]

I greet all the English-speaking pilgrims, especially those coming from England, the Netherlands, Denmark, the Faroe Islands, Japan, Korea and the United States of America. May the Lentern journey bring us to Easter with hearts purified and renewed by the grace of the Holy Spirit. Upon you and your families, I invoke joy and peace in Christ!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Paesi Bassi, Danimarca, Isole Faroe, Giappone, Corea e Stati Uniti d’America. A tutti auguro che il cammino quaresimale porti alla gioia di Pasqua con cuori purificati e rinnovati dalla grazia dello Spirito Santo. Su voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace di Cristo!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, bitten wir den Heiligen Geist, er möge uns erleuchten, auf dass unsere Entscheidungen immer von der Klugheit geleitet seien. Auf diese Weise werden wir den Willen des Herrn in jeder Lebenslage erkennen und ihm folgen können.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, chiediamo allo Spirito Santo di illuminarci perché le nostre scelte siano sempre guidate dalla prudenza. Così potremo discernere e seguire la volontà del Signore in ogni situazione della nostra vita.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Pidamos al Señor que nos ayude a crecer en la virtud de la prudencia para que, en medio de las tormentas y los vientos que pueden sacudir nuestra vida, permanezcamos cimentados en Cristo, la piedra angular. Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa. Na próxima semana celebraremos o mistério Pascal, a paixão, morte e ressurreição do Senhor, razão da nossa fé e da nossa esperança. Que Ele vos abençoe abundantemente e que Nossa Senhora vos guarde!

[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese. La prossima settimana celebreremo il mistero Pasquale, la passione, morte e risurrezione del Signore, ragione della nostra fede e della nostra speranza. Egli vi benedica abbondantemente e la Madonna vi custodisca!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة. اللهُ لا يُريدُنا أنْ نكون قِدِّيسينَ فقط، بل يُريدُنا أنْ نكون قِدِّيسينَ عاقِلِين، لأنَّهُ مِن دونِ الفِطنَةِ يُمكِنُنا أنْ نُخطِئَ الطَّريقَ في لَحظَةٍ واحدة! بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Dio non ci vuole solo santi, ci vuole santi intelligenti, perché senza la prudenza è un attimo sbagliare strada! Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Serdecznie pozdrawiam Polaków. Co roku 24 marca obchodzicie w Polsce Narodowy Dzień Życia. Myśląc o waszej Ojczyźnie, chciałbym odnieść do niej moje marzenie, jakie kilka lat temu wyraziłem, pisząc o Europie. Niech Polska będzie ziemią, która chroni życie w każdym jego momencie, od chwili, gdy pojawia się w łonie matki, aż do jego naturalnego kresu. Nie zapominajcie, że nikt nie jest panem życia, czy to swojego, czy też innych. Z serca wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i polacchi. Ogni anno il 24 marzo celebrate in Polonia la Giornata Nazionale della Vita. Pensando alla vostra patria, vorrei riferirvi il mio sogno, che ho espresso qualche anno fa scrivendo sull’Europa. Che la Polonia sia una terra che tuteli la vita in ogni suo istante, da quando sorge nel grembo materno fino alla sua fine naturale. Non dimenticate che nessuno è padrone della vita, né propria né di quella degli altri. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alla Rete delle città legate al culto di Sant’Oronzo, Vescovo e martire. Cari fratelli e sorelle, la testimonianza del vostro celeste protettore, di cui sarò lieto di benedire l’immagine, susciti in ciascuno il desiderio di aderire sempre più generosamente a Cristo e al Vangelo.

Saluto altresì la parrocchia di San Pietro in Grignano di Prato, i podisti di Boves e gli alunni dell’Istituto comprensivo di Sora.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Abbiamo celebrato ieri la solennità di San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale. Vorrei insieme a voi affidare al suo patrocinio la Chiesa e il mondo intero, soprattutto tutti i papà che in lui hanno un modello singolare da imitare.

A San Giuseppe raccomandiamo anche le popolazioni della martoriata Ucraina e della Terra Santa – la Palestina, Israele –, che tanto soffrono l’orrore della guerra. E non dimentichiamo mai: la guerra sempre è una sconfitta. Non si può andare avanti in guerra. Dobbiamo fare tutti gli sforzi per trattare, per negoziare, per finire la guerra. Preghiamo per questo.

A tutti la mia Benedizione!

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<![CDATA[Messaggio per la 61<sup>a</sup> Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni 2024]]>Tue, 19 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/vocations/documents/20240421-messaggio-61-gm-vocazioni.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/vocations/documents/20240421-messaggio-61-gm-vocazioni.html

Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace

Cari fratelli e sorelle!

La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita. Ascoltare la chiamata divina, lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso; è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro: la nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo.

Così, questa Giornata è sempre una bella occasione per ricordare con gratitudine davanti al Signore l’impegno fedele, quotidiano e spesso nascosto di coloro che hanno abbracciato una chiamata che coinvolge tutta la loro vita. Penso alle mamme e ai papà che non guardano anzitutto a sé stessi e non seguono la corrente di uno stile superficiale, ma impostano la loro esistenza sulla cura delle relazioni, con amore e gratuità, aprendosi al dono della vita e ponendosi al servizio dei figli e della loro crescita. Penso a quanti svolgono con dedizione e spirito di collaborazione il proprio lavoro; a coloro che si impegnano, in diversi campi e modi, per costruire un mondo più giusto, un’economia più solidale, una politica più equa, una società più umana: a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che si spendono per il bene comune. Penso alle persone consacrate, che offrono la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano. E penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio.

Ai giovani, specialmente a quanti si sentono lontani o nutrono diffidenza verso la Chiesa, vorrei dire: lasciatevi affascinare da Gesù, rivolgetegli le vostre domande importanti, attraverso le pagine del Vangelo, lasciatevi inquietare dalla sua presenza che sempre ci mette beneficamente in crisi. Egli rispetta più di ogni altro la nostra libertà, non si impone ma si propone: lasciategli spazio e troverete la vostra felicità nel seguirlo e, se ve lo chiederà, nel donarvi completamente a Lui.

Un popolo in cammino

La polifonia dei carismi e delle vocazioni, che la Comunità cristiana riconosce e accompagna, ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in sé stesse, ma siamo parti del tutto. Perciò, la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni porta impresso il timbro della sinodalità: molti sono i carismi e siamo chiamati ad ascoltarci reciprocamente e a camminare insieme per scoprirli e per discernere a che cosa lo Spirito ci chiama per il bene di tutti.

Nel presente momento storico, poi, il cammino comune ci conduce verso l’Anno Giubilare del 2025. Camminiamo come pellegrini di speranza verso l’Anno Santo, perché nella riscoperta della propria vocazione e mettendo in relazione i diversi doni dello Spirito, possiamo essere nel mondo portatori e testimoni del sogno di Gesù: formare una sola famiglia, unita nell’amore di Dio e stretta nel vincolo della carità, della condivisione e della fraternità.

Questa Giornata è dedicata, in particolare, alla preghiera per invocare dal Padre il dono di sante vocazioni per l’edificazione del suo Regno: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Lc 10,2). E la preghiera – lo sappiamo – è fatta più di ascolto che di parole rivolte a Dio. Il Signore parla al nostro cuore e vuole trovarlo aperto, sincero e generoso. La sua Parola si è fatta carne in Gesù Cristo, il quale ci rivela e ci comunica tutta la volontà del Padre. In quest’anno 2024, dedicato proprio alla preghiera in preparazione al Giubileo, siamo chiamati a riscoprire il dono inestimabile di poter dialogare con il Signore, da cuore a cuore, diventando così pellegrini di speranza, perché «la preghiera è la prima forza della speranza. Tu preghi e la speranza cresce, va avanti. Io direi che la preghiera apre la porta alla speranza. La speranza c’è, ma con la mia preghiera apro la porta» (Catechesi, 20 maggio 2020).

Pellegrini di speranza e costruttori di pace

Ma cosa vuol dire essere pellegrini? Chi intraprende un pellegrinaggio cerca anzitutto di avere chiara la meta, e la porta sempre nel cuore e nella mente. Allo stesso tempo, però, per raggiungere quel traguardo, occorre concentrarsi sul passo presente, per affrontare il quale bisogna essere leggeri, spogliarsi dei pesi inutili, portare con sé l’essenziale e lottare ogni giorno perché la stanchezza, la paura, l’incertezza e le oscurità non blocchino il cammino intrapreso. Così, essere pellegrini significa ripartire ogni giorno, ricominciare sempre, ritrovare l’entusiasmo e la forza di percorrere le varie tappe del percorso che, nonostante le fatiche e le difficoltà, sempre aprono davanti a noi orizzonti nuovi e panorami sconosciuti.

Il senso del pellegrinaggio cristiano è proprio questo: siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni. Dunque, pellegrini perché chiamati: chiamati ad amare Dio e ad amarci gli uni gli altri. Così, il nostro camminare su questa terra non si risolve mai in un affaticarsi senza scopo o in un vagare senza meta; al contrario, ogni giorno, rispondendo alla nostra chiamata, cerchiamo di fare i passi possibili verso un mondo nuovo, dove si viva in pace, nella giustizia e nell’amore. Siamo pellegrini di speranza perché tendiamo verso un futuro migliore e ci impegniamo a costruirlo lungo il cammino.

Questo è, alla fine, lo scopo di ogni vocazione: diventare uomini e donne di speranza. Come singoli e come comunità, nella varietà dei carismi e dei ministeri, siamo tutti chiamati a “dare corpo e cuore” alla speranza del Vangelo in un mondo segnato da sfide epocali: l’avanzare minaccioso di una terza guerra mondiale a pezzi; le folle di migranti che fuggono dalla loro terra alla ricerca di un futuro migliore; il costante aumento dei poveri; il pericolo di compromettere in modo irreversibile la salute del nostro pianeta. E a tutto ciò si aggiungono le difficoltà che incontriamo quotidianamente e che, a volte, rischiano di gettarci nella rassegnazione o nel disfattismo.

In questo nostro tempo, allora, è decisivo per noi cristiani coltivare uno sguardo pieno di speranza, per poter lavorare con frutto, rispondendo alla vocazione che ci è stata affidata, al servizio del Regno di Dio, Regno di amore, di giustizia e di pace. Questa speranza – ci assicura San Paolo – «non delude» (Rm 5,5), perché si tratta della promessa che il Signore Gesù ci ha fatto di restare sempre con noi e di coinvolgerci nell’opera di redenzione che Egli vuole compiere nel cuore di ogni persona e nel “cuore” del creato. Tale speranza trova il suo centro propulsore nella Risurrezione di Cristo, che «contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 276). Ancora l’apostolo Paolo afferma che «nella speranza» noi «siamo stati salvati» (Rm 8,24). La redenzione realizzata nella Pasqua dona la speranza, una speranza certa, affidabile, con la quale possiamo affrontare le sfide del presente.

Essere pellegrini di speranza e costruttori di pace, allora, significa fondare la propria esistenza sulla roccia della risurrezione di Cristo, sapendo che ogni nostro impegno, nella vocazione che abbiamo abbracciato e che portiamo avanti, non cade nel vuoto. Nonostante fallimenti e battute d’arresto, il bene che seminiamo cresce in modo silenzioso e niente può separarci dalla meta ultima: l’incontro con Cristo e la gioia di vivere nella fraternità tra di noi per l’eternità. Questa chiamata finale dobbiamo anticiparla ogni giorno: la relazione d’amore con Dio e con i fratelli e le sorelle inizia fin d’ora a realizzare il sogno di Dio, il sogno dell’unità, della pace e della fraternità. Nessuno si senta escluso da questa chiamata! Ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel suo stato di vita può essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, seminatore di speranza e di pace.

Il coraggio di mettersi in gioco

Per tutto questo dico, ancora una volta, come durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona: “Rise up! – Alzatevi!”. Svegliamoci dal sonno, usciamo dall’indifferenza, apriamo le sbarre della prigione in cui a volte ci siamo rinchiusi, perché ciascuno di noi possa scoprire la propria vocazione nella Chiesa e nel mondo e diventare pellegrino di speranza e artefice di pace! Appassioniamoci alla vita e impegniamoci nella cura amorevole di coloro che ci stanno accanto e dell’ambiente che abitiamo. Ve lo ripeto: abbiate il coraggio di mettervi in gioco! Don Oreste Benzi, un infaticabile apostolo della carità, sempre dalla parte degli ultimi e degli indifesi, ripeteva che nessuno è così povero da non aver qualcosa da dare, e nessuno è così ricco da non aver bisogno di ricevere qualcosa.

Alziamoci, dunque, e mettiamoci in cammino come pellegrini di speranza, perché, come Maria fece con Santa Elisabetta, anche noi possiamo portare annunci di gioia, generare vita nuova ed essere artigiani di fraternità e di pace.

Roma, San Giovanni in Laterano, 21 aprile 2024, IV Domenica di Pasqua.

FRANCESCO

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<![CDATA[Lettera del Santo Padre per il 30° Anniversario dell'uccisione di Don Giuseppe Diana (19 marzo 2024)]]>Tue, 19 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240319-lettera-30-don-diana.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240319-lettera-30-don-diana.html

Al Caro Fratello
Mons. Angelo SPINILLO
Vescovo di Aversa

Il ricordo del tragico evento consumatosi trent’anni orsono, quando Don Giuseppe Diana, Parroco di San Nicola di Bari a Casal di Principe, nella mattina del 19 marzo 1994, fu barbaramente ucciso, suscita nell’animo di quanti lo hanno conosciuto e amato commozione oltre che gratitudine a Dio Padre per aver donato alla Chiesa questo “servo buono e fedele” (Mt 25,14), che ha operato profeticamente calandosi nel deserto esistenziale di un popolo a lui tanto caro, servito e difeso fino al sacrificio della propria esistenza.

Desidero, dunque, rivolgere un pensiero paterno all’intera Comunità diocesana e specialmente ai fedeli della Parrocchia di Casal di Principe che, nel fare memoria di Don Peppe, come affettuosamente veniva chiamato, vuole vivere la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa. La mia riconoscenza va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che Don Diana ha avviato come assistente spirituale di associazioni e di gruppi di fedeli, in particolare di giovani e di realtà legate agli Scout.

Esprimo vicinanza e incoraggiamento a tutti Voi che, orientati dall’annuncio profetico “Per amore del mio popolo…” (Is 62,1), perseverate sulla via tracciata da Don Diana e, con impegno quotidiano, coltivate pazientemente il seme della giustizia e il sogno dello sviluppo umano e sociale per la vostra terra.

Ancora oggi si ripete la triste vicenda narrata dalla Sacra Scrittura del primo fratricidio di Caino contro il fratello Abele (cfr. Gen 4,8). Questa storia tragica conserva la sua attualità quando un essere umano alza la mano per colpire l’altro, così come avviene nelle tante forme di odio e di sopruso che feriscono l’uomo e talvolta bagnano di sangue le strade dei nostri quartieri e delle nostre città.  Pertanto, la commemorazione del sacrificio di Don Giuseppe ci sprona a ravvivare in noi quella evangelica inquietudine che ha animato il suo sacerdozio e lo ha portato senza alcuna esitazione a contemplare il volto del Padre in ogni fratello, testimoniando a chi si sente ferito il progetto di Dio, perché ciascuno potesse vivere nella giustizia, nella pace e nella libertà.

A fronte di quella violenza e della prepotenza disumana che nega la giustizia e annulla la dignità delle persone, i cristiani sono coloro che annunziano il Vangelo e vivono la vocazione ad essere con Cristo segno di un’umanità nuova, fecondata dalla fraternità e dalla comunione. Tale consapevolezza, già nel 1982, spinse i Vescovi della Campania a “levare alta la voce della denuncia e riproporre con forza il progetto dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella verità (cfr. Ef 4,24) … e sottolineare la contrapposizione stridente che esiste tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo” (Conferenza Episcopale Campana, Per amore del mio popolo non tacerò, 1982). Allo stesso tempo sentiamo forte l’attualità delle parole che Don Peppe Diana, con i Parroci della zona pastorale di Casal di Principe, pronunciò nel Natale del 1991: “Come battezzati in Cristo, come pastori… Dio ci chiama ad essere profeti. Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (cfr. Ez 3,16-18)” (Forania di Casal di Principe, Per amore del mio popolo, 1991).

In tale significativo anniversario dell’uccisione di questo coraggioso discepolo del Maestro, invito a rafforzare la fede e la speranza nella verità di Dio, ad accogliere la sua Parola e a custodire il proposito di edificare una società, finalmente purificata dalle ombre del peccato, capace di osare un avvenire di concordia e di fraternità.

Prima di concludere, mosso da sentimenti di fiducia, esorto Voi giovani, volto bello e limpido di codesta terra: non lasciatevi rubare la speranza, coltivate ideali alti e costruite un futuro diverso con mani non sporche di sangue ma di lavoro onesto, senza cedere a compromessi facili ma illusori, raccogliendo l’eredità spirituale di Don Peppe per divenire, a vostra volta, artigiani di pace.

Mentre affido tutti alla materna protezione della Beata Vergine Maria e all’intercessione di San Giuseppe, uomo giusto e padre nella tenerezza, di cuore Vi benedico, chiedendo per favore di non dimenticarVi di pregare per me.

Fraternamente

Roma, da San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2024
Solennità di San Giuseppe Sposo della B.V.M.
Patrono della Chiesa Universale

Francesco

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<![CDATA[Chirografo di Sua Santità Francesco per l'approvazione dello Statuto e del Regolamento del Capitolo della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore (19 marzo 2024) ]]>Tue, 19 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240319-chirografo-santa-maria-maggiore.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240319-chirografo-santa-maria-maggiore.html

Il Capitolo della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, da diversi secoli, custodisce la venerata effige della Salus Populi Romani e la insigne reliquia della Sacra Culla, cura il decoro delle celebrazioni liturgiche del Tempio liberiano e accoglie i fedeli che ivi si radunano.

Il 14 dicembre 2021 ho affidato a un Commissario Straordinario, affiancato da un’apposita Commissione, l’incarico di provvedere al riordino della vita del Capitolo e della Basilica, per il maggior bene del popolo di Dio.

Oggi, al termine del commissariamento, ritengo opportuno liberare i Canonici da ogni incombenza di carattere economico e amministrativo, affinché possano dedicarsi, pienamente e con rinnovato vigore, all’accompagnamento spirituale e pastorale che i pellegrini di tutto il mondo cercano e desiderano trovare, varcando le soglie del primo Santuario mariano d’Occidente.

Per questa ragione, ispirandosi ai Principi e ai Criteri della Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, è stato stilato un nuovo Statuto e predisposto un nuovo Regolamento del Capitolo della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore che, come di seguito riportati, con il presente Chirografo, approvo.

Al contempo, conferisco a S.E.R. Mons. Rolandas Makrickas, Arciprete Coadiutore della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, tutte le facoltà necessarie per la moderazione e l’applicazione della nuova normativa e per il governo del Capitolo. Dispongo, inoltre, che ne continui ad esercitare la Legale Rappresentanza, e che mantenga, fino all’insediamento del Consiglio di Amministrazione, la potestà di porre atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Infine, gli attribuisco le mansioni spettanti al Vicario dell’Arciprete, al Delegato per la Pastorale e al Delegato per l’Amministrazione, fino alle rispettive nomine.

Tutto quanto qui ho stabilito ha pieno e stabile vigore, nonostante qualsiasi disposizione contraria, anche degna di speciale menzione, entra in vigore con la pubblicazione su L’Osservatore Romano e, successivamente,sarà inserito negli Acta Apostolicae Sedis.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 19 marzo 2024, dodicesimo del Pontificato.

 

FRANCESCO

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<![CDATA[Messaggio del Santo Padre ai partecipanti all’Incontro dei Vescovi di Colombia e Costa Rica e di Panama [Panama, 19-22 marzo 2024] (19 marzo 2024)]]>Tue, 19 Mar 2024 09:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240319-messaggio-incontro-vescovi.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240319-messaggio-incontro-vescovi.html

Saluto cordialmente i partecipanti al convegno “Pasqua con i nostri fratelli migranti. Incontro dei Vescovi di frontiera di Colombia e Costa Rica e dei Vescovi di Panama”.

Sono lieto che il vostro convegno si aggiunga a iniziative come il IX incontro dei Vescovi di frontiera di Canada, Stati Uniti, Messico, America Centrale e Caraibi tenutosi a El Salvador; il II Incontro dei Vescovi di frontiera di Colombia e Venezuela svoltosi a Cúcuta; e l’Incontro dei Vescovi di Frontiera tra Colombia ed Ecuador celebrato a Pasto.

L’evangelista Matteo ci dice che «il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”» (26, 17). Oggi, la Chiesa che peregrina in Colombia, Costa Rica e Panamá, unendosi al Signore, vuole rispondere: «Nel Darién, con i fratelli e le sorelle migranti». È lì che ci aspettano, sulla riva terrestre di un mare di lacrime e di morte che unisce uomini e donne, adulti e bambini delle più diverse latitudini.

La migrazione in questa regione include venezuelani, ecuadoregni, colombiani, haitiani che, lungo il cammino, si uniscono a gruppi di nicaraguensi e altri migranti centroamericani, come pure di altri continenti. Con il suo volto multiculturale, questa carovana umana passa per il Tapón del Darién, una giungla che è un trionfo della natura, ma che oggi sta diventando una vera e propria via crucis, che non solo mette in evidenza i limiti della gestione dei migranti nell’emisfero occidentale, ma alimenta anche un fiorente business che permette di accumulare profitti illeciti provenienti dalla tratta di esseri umani.

Né i pericoli che presuppongono il passaggio e i ricatti illegali, né i crescenti respingimenti o trattenimenti in Paesi dove questi fratelli e sorelle non sono desiderati riducono l’attrazione (reale o illusoria) di soddisfare i bisogni di lavoro e di migliori condizioni di vita o, persino, di una sperata riunificazione familiare.

La Chiesa in America Latina e nei Caraibi, come testimoniano le cinque conferenze generali del suo Consiglio Episcopale, ha sempre espresso la sua preoccupazione per il tema della migrazione, cercando di essere una Chiesa senza frontiere, Madre di tutti. È per questo che, come cristiani, ogni rifugiato o migrante che abbandona la sua patria c’interpella. Nei nostri popoli troviamo al tempo stesso la fratellanza ospitale che accoglie con sensibilità umana ma, purtroppo, anche l’indifferenza, che insanguina il Darién.

Vi incoraggio a lavorare instancabilmente affinché sia possibile sradicare questa indifferenza, di modo che quando un fratello o una sorella migrante giunge, trovi nella Chiesa un posto dove non si senta giudicato, bensì accolto; dove possa placare la fame e la sete, e ravvivare la speranza. Per questo la pastorale della mobilità umana ci spinge, come dice Isaia, ad allargare lo spazio della tenda (cfr. 54, 2) e così, riconoscendoci a nostra volta forestieri, con le nostre vulnerabilità e carenze, possiamo creare le condizioni necessarie per accogliere il prossimo come un fratello o una sorella, e renderlo partecipe della nostra quotidianità.

Riconosco con gratitudine che la Chiesa in America, da nord a sud, includendo i Caraibi, possiede un ampio e diversificato sistema di ministero pastorale, caritativo e di mobilità umana a livello nazionale e locale, che si manifesta attraverso una vasta e solida risposta nell’assistenza diretta ai migranti, e che si plasma in case di accoglienza, centri per rimpatriati, assistenza umanitaria di emergenza, assistenza medica, assistenza psicosociale, consulenza legale, sostegno spirituale, rafforzamento dei collettivi di migranti, mezzi di sussistenza e processi d’impatto politico. Per favore, non trascurate queste strutture, che sono opportunità di accoglienza e carità per i fratelli più bisognosi.

Un approccio regionale alla migrazione rappresenta inoltre un’opportunità pastorale. Nel mio messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2023 ho ricordato che il diritto a non migrare si presenta a noi come soluzione, sebbene a lungo termine, alla migrazione forzata, attraverso l’integrazione regionale dei Paesi che respingono e di quelli di passaggio, destinazione e ritorno di migranti. Vi esorto quindi a unire gli sforzi con tutte le istanze della comunità internazionale affinché tutti abbiano questo diritto a rimanere nella propria terra con una vita dignitosa e pacifica.

Il cammino della migrazione ha bisogno di pastori e di agenti di pastorale che osino superare i limiti di quanto stabilito, che non temano di riconoscere alcun sentiero, perché hanno perso la paura che paralizza, capaci di ritornare all’essenziale, abbandonando l’indifferenza, perché sono consapevoli che, solo camminando al ritmo di Dio con il suo popolo santo, si potranno superare le barriere del convenzionale, portando la Chiesa, insieme con i fratelli e le sorelle migranti, lungo vie di speranza.

Cari fratelli e sorelle, che possiamo formare una sola Chiesa disposta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzioni e senza escludere nessuno, riconoscendo il diritto che ognuno ha di offrire il proprio contributo, attraverso il lavoro e l’impegno personale, al bene di tutti e alla protezione della nostra casa comune.

Vi incoraggio a vivere questi giorni con gioia e speranza, e che la Pasqua che si avvicina sia il motivo che vi ricordi che tutti gli sforzi valgono la pena. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fraternamente,

Roma, San Giovanni in Laterano, 19 marzo 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 65, mercoledì 20 marzo 2024, p. 6.

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<![CDATA[Angelus, 17 marzo 2024]]>Sun, 17 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240317-angelus.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240317-angelus.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, quinta Domenica di Quaresima, mentre ci avviciniamo alla Settimana Santa, Gesù nel Vangelo (cfr Gv 12,20-33) ci dice una cosa importante: che sulla Croce vedremo la gloria sua e del Padre (cfr vv. 23.28).

Ma com’è possibile che la gloria di Dio si manifesti proprio lì, sulla Croce? Verrebbe da pensare che ciò avvenga nella Risurrezione, non sulla Croce, che è una sconfitta, un fallimento! Invece oggi Gesù, parlando della sua Passione, dice: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (v. 23). Cosa vuole dirci?

Vuole dirci che la gloria, per Dio, non corrisponde al successo umano, alla fama o alla popolarità; la gloria, per Dio, non ha nulla di autoreferenziale, non è una manifestazione grandiosa di potenza cui seguono gli applausi del pubblico. Per Dio la gloria è amare fino a dare la vita. Glorificarsi, per Lui, vuol dire donarsi, rendersi accessibile, offrire il suo amore. E questo è avvenuto in modo culminante sulla Croce, proprio lì, dove Gesù ha dispiegato al massimo l’amore di Dio, rivelandone pienamente il volto di misericordia, donandoci la vita e perdonando i suoi crocifissori.

Fratelli e sorelle, dalla Croce, “cattedra di Dio”, il Signore ci insegna che la gloria vera, quella che non tramonta mai e rende felici, è fatta di dono e perdono. Dono e perdono sono l’essenza della gloria di Dio. E sono per noi la via della vita. Dono e perdono: criteri molto diversi da ciò che vediamo attorno a noi, e anche in noi, quando pensiamo alla gloria come a qualcosa da ricevere più che da dare; come qualcosa da possedere anziché da offrire. No, la gloria mondana passa e non lascia la gioia nel cuore; nemmeno porta al bene di tutti, ma alla divisione, alla discordia, all’invidia.

E allora possiamo chiederci: qual è la gloria che desidero per me, per la mia vita, che sogno per il mio futuro? Quella di impressionare gli altri per la mia bravura, per le mie capacità o per le cose che possiedo? Oppure la via del dono e del perdono, quella di Gesù Crocifisso, la via di chi non si stanca di amare, fiducioso che ciò testimonia Dio nel mondo e fa risplendere la bellezza della vita? Quale gloria voglio per me? Ricordiamo infatti che, quando doniamo e perdoniamo, in noi risplende la gloria di Dio. Proprio lì: quando doniamo e perdoniamo.

La Vergine Maria, che ha seguito con fede Gesù nell’ora della Passione, ci aiuti ad essere riflessi viventi dell’amore di Gesù.

Dopo l’Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ho appreso con sollievo che ad Haiti sono stati liberati un’insegnante e quattro dei sei religiosi dell’Istituto Frères du Sacré-Cœur rapiti lo scorso 23 febbraio. Chiedo che siano liberati al più presto gli altri due religiosi e tutte le persone ancora sotto sequestro in quell’amato Paese provato da tanta violenza. Invito tutti gli attori politici e sociali ad abbandonare ogni interesse particolare e a impegnarsi in spirito solidale nella ricerca del bene comune, sostenendo una transizione serena verso un Paese che, con l’aiuto della Comunità internazionale, sia dotato di solide istituzioni capaci di riportare l’ordine e la tranquillità tra i suoi cittadini.

Continuiamo a pregare per le popolazioni martoriate dalla guerra, in Ucraina, in Palestina e in Israele, in Sudan. E non dimentichiamo la Siria, un Paese che soffre tanto per la guerra, da tempo.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare, saluto gli studenti spagnoli della rete di residenze universitarie “Camplus”, i gruppi parrocchiali di Madrid, Pescara, Chieti, Locorotondo e della parrocchia di San Giovanni Leonardi in Roma. Saluto la Cooperativa Sociale San Giuseppe di Como, i bambini di Perugia, i giovani di Bologna in cammino verso la Professione di Fede, e i ragazzi della Cresima di Pavia, Iolo di Prato e Cavaion Veronese.

Accolgo con piacere i partecipanti alla Maratona di Roma, tradizionale festa dello sport e della fraternità. Anche quest’anno, per iniziativa di Athletica Vaticana, numerosi atleti sono coinvolti nelle “staffette della solidarietà”, diventando testimoni di condivisione.

E a tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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<![CDATA[Messaggio di cordoglio del Santo Padre per la scomparsa di Sua Santità Neofit, Metropolita di Sofia e Patriarca della Chiesa Ortodossa di Bulgaria (16 marzo 2024)]]>Sat, 16 Mar 2024 15:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240315-messaggio-cordoglio-metropolita-sofia.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240315-messaggio-cordoglio-metropolita-sofia.html

 

Ho appreso con profonda tristezza della morte del vostro amato Patriarca, Sua Santità Neofit, che è stato un grande testimone della fede della Chiesa ortodossa bulgara, e invio sentite condoglianze a lei, al Santo Sinodo che presiede, e all’intera Chiesa ortodossa bulgara. 

Sua Santità Neofit ha reso un prezioso servizio al Vangelo e al dialogo e, nonostante le sue molte sofferenze, è rimasto un uomo di umiltà e gioia, un esempio di una vita consacrata al Signore e alla sua Chiesa. Poiché il Corpo di Cristo sulla terra — la Chiesa — è la porta d’accesso alla vita del Signore risorto, così per i fedeli cristiani, la morte segna un passaggio da questo mondo alla Vita Eterna. Pertanto, è nostra orante speranza che Sua Santità Neofit stia ora vivendo «dove non vi è dolore né affanno né gemito» (Trisàghion per i defunti).

Assicuro Sua Eminenza, il Santo Sinodo e tutti i membri della Chiesa ortodossa bulgara di un ricordo speciale nelle mie preghiere; che Gesù Cristo — il quale «è risuscitato dai morti. Con la sua morte ha vinto la morte, ai morti ha dato la vita» (Tropario di Pasqua) — possa riempire i vostri cuori di consolazione e pace.

FRANCESCO

Roma, San Giovanni in Laterano, 15 marzo 2024

 


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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 63, sabato 16 marzo 2024, p. 10.

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<![CDATA[Ai Dirigenti e al Personale dell'Ospedale Pediatrico "Bambino Gesù" (16 marzo 2024)]]>Sat, 16 Mar 2024 09:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240316-ospedale-bambino-gesu.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240316-ospedale-bambino-gesu.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti tutti!

Sono molto contento di incontrarvi, mentre ricordate il primo centenario di fondazione dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Un secolo fa, esso veniva donato alla Santa Sede dalla famiglia Salviati: primo vero ospedale dedicato ai bambini. Il dono fu accolto da Pio XI, che vide nell’opera l’espressione della carità del Papa e della Chiesa verso i piccoli infermi, e da allora è conosciuto come “Ospedale del Papa”.

Fermiamoci allora un momento a riflettere, con riconoscenza, sulla ricchezza di questa istituzione, sviluppatasi in un secolo di storia, sottolineandone tre aspetti: il dono, la cura e la comunità.

Primo aspetto: il dono. Oggi il “Bambino Gesù” è un centro di ricerca e di cura pediatrica tra i più grandi in Europa, punto di riferimento per famiglie che vengono da tutto il mondo. Resta però fondamentale, nella sua storia e nella sua vocazione, l’elemento del dono, con i valori di gratuità, generosità, disponibilità e umiltà. È bello ricordare, in proposito, il gesto dei figli della duchessa Arabella Salviati che, all’inizio della vostra storia, regalarono alla mamma il loro salvadanaio per realizzare un ospedale per i bambini: esso ci dice che questa grande opera si fonda anche su doni umili, come quello di questi ragazzi a beneficio dei loro coetanei malati. E nella stessa ottica fa bene, ai nostri giorni, menzionare la generosità dei molti benefattori grazie a cui si è potuto realizzare, a Passoscuro, un Centro di Cure Palliative per giovanissimi pazienti affetti da malattie inguaribili. 

Solo in questa luce si può comprendere appieno il valore di ciò che fate, dalle cose più piccole alle più grandi, e si può continuare a sognare per il futuro. Pensiamo, ad esempio, alla prospettiva di una nuova sede a Roma, di cui sono state poste recentemente le premesse, con un accordo tra la Santa Sede e lo Stato Italiano. Come pure al notevole impegno economico ordinario e straordinario, legato alla tutela e manutenzione di strutture e apparecchiature; alla garanzia di qualità professionale di medici e operatori; alla ricerca scientifica; fino a giungere all’accoglienza di bambini bisognosi provenienti da ogni parte del mondo, offerta senza distinzione di condizione sociale, nazionalità o religione. In tutto questo il dono è un elemento indispensabile del vostro essere e del vostro agire.

Secondo aspetto: la cura. La scienza, e di conseguenza la capacità di cura, si può dire il primo dei compiti che caratterizza oggi l’Ospedale Bambino Gesù. Essa è la risposta concreta che date alle accorate richieste di aiuto di famiglie che domandano per i loro figli assistenza e, ove possibile, guarigione. L’eccellenza nella ricerca biomedica è dunque importante. Vi incoraggio a coltivarla con lo slancio di offrire il meglio di voi stessi e con un’attenzione speciale nei confronti dei più fragili, come i pazienti affetti da malattie gravi, rare o ultra-rare. Non solo, ma perché la scienza e la competenza non restino privilegio di pochi, vi esorto a continuare a mettere i frutti della vostra ricerca a disposizione di tutti, specialmente là dove ce n’è più bisogno, come fate ad esempio contribuendo alla formazione di medici e infermieri africani, asiatici e mediorientali.

A proposito di cura, sappiamo che la malattia di un bambino coinvolge tutti i suoi familiari. Per questo, è una grande consolazione sapere che sono tante le famiglie seguite dai vostri servizi, accolte in strutture legate all’ospedale e accompagnate dalla vostra gentilezza e vicinanza. Questo è un elemento qualificante, che non va mai trascurato, anche se so che a volte lavorate in condizioni difficili. Piuttosto sacrifichiamo qualcos’altro, ma non la gentilezza e la tenerezza. Non c’è cura senza relazione, prossimità e tenerezza, a tutti i livelli.

E infine veniamo al terzo punto: la comunità. Una delle più belle espressioni che descrivono la missione del “Bambino Gesù” è “Vite che aiutano la vita”. È bella, perché parla di una missione portata avanti insieme, con un agire comune in cui trova posto il dono di ciascuno. Questa è la vostra vera forza e il presupposto per affrontare anche le sfide più difficili. Il vostro infatti non è un lavoro come tanti altri: è una missione, che ognuno esercita in modo diverso. Per alcuni essa comporta la dedizione di una vita intera; per altri l’offerta del proprio tempo nel volontariato; per altri ancora il dono del proprio sangue, del proprio latte – per i neonati ricoverati le cui mamme non possono provvederlo –, fino al dono di organi, cellule e tessuti, offerti da persone viventi o prelevati dal corpo di persone decedute. L’amore spinge alcuni genitori al gesto eroico di acconsentire alla donazione degli organi dei loro bambini che non ce l’hanno fatta. In tutto questo ciò che emerge è un “fare insieme”, dove i diversi doni concorrono al bene dei piccoli pazienti.

Cari fratelli e sorelle, vi confesso che quando vengo al “Bambino Gesù” provo due sentimenti contrastanti: provo dolore per la sofferenza dei bambini malati e dei loro genitori; ma nello stesso tempo provo una grande speranza, vedendo tutto quello che lì si fa per curarli. Grazie! Grazie di tutto questo. Andate avanti in quest’opera benedetta. Vi benedico di cuore e prego per voi. E anche voi, per favore, pregate per me. Grazie.

Adesso darò la benedizione a tutti: ai malati, ai medici, agli infermieri e a tutte le persone che lavorano in questo Ospedale e per questo Ospedale. Preghiamo la Madonna perché ci aiuti ad andare avanti. Ave o Maria,…

[Benedizione]

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<![CDATA[Ai membri della Fondazione "Mons. Camillo Faresin", di Maragnole di Breganze (Vicenza) (16 marzo 2024)]]>Sat, 16 Mar 2024 09:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240316-fondazione-faresin.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240316-fondazione-faresin.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono contento di accogliervi in occasione del ventesimo anniversario della vostra Fondazione. Oggi portate qui con voi vent’anni ricchi di iniziative a servizio degli ultimi, percorsi sulle orme di Mons. Camillo Faresin, per lungo tempo Vescovo di Guiratinga nel Mato Grosso, esempio di sensibilità missionaria e di fede nella Provvidenza, e anche dei suoi due fratelli: don Santo, pure lui missionario salesiano, e don Giovanni Battista, sacerdote diocesano.

Vi siete proposti di raccogliere il testimone della loro carità facendone vostra la tenacia e l’ampiezza di vedute nel servire il prossimo. E questo vi ha portato a svolgere la vostra opera in Brasile, in Italia e in altre parti del mondo, estendendola a diversi campi: dalla formazione all’assistenza sociale, alla cura sanitaria, all’offerta di condizioni di vita dignitose e di opportunità di lavoro per tante persone.

Guardando al vostro impegno, vorrei sottolineare e incoraggiare due linee d’azione importanti: lavorare tra gli ultimi e lavorare insieme.

Primo: lavorare tra gli ultimi. Monsignor Faresin e i suoi fratelli erano persone di estrazione umile. Hanno imparato il valore della carità e il fervore missionario nel contesto di una famiglia semplice, devota, modesta e dignitosa, una famiglia come tante delle nostre. In quell’ambiente hanno saputo cogliere, con la grazia di Dio, un messaggio e un invito per il loro futuro a stare tra gli ultimi per aiutare gli ultimi, e lo hanno fatto con instancabile amore, con generosità e intelligenza, anche tra grandi difficoltà. Ricordiamo, in proposito, che il nome del Vescovo Camillo è annoverato, a Gerusalemme, tra quelli del “Giardino dei Giusti”, proprio perché, prima ancora di poter partire per il Brasile, bloccato a Roma a causa della seconda guerra mondiale, non si è lasciato fermare dalle circostanze, prodigandosi con carità e coraggio nell’assistere gli ebrei perseguitati.

Così è stato per tutta la sua vita, come sacerdote e poi come vescovo, con un impulso irresistibile a farsi vicino ai più sfortunati. Fino a quando, terminato il suo mandato episcopale, ha chiesto e ottenuto di poter rimanere fra la sua gente, nel Mato Grosso, fino alla sua morte, come umile servo degli umili, continuando così nel nascondimento, come amico e compagno di cammino, lo stesso ministero che per tanti anni aveva svolto come guida e pastore.

Quello che ci ha lasciato è un esempio grande da imitare: stare con gli ultimi, sempre! Ma in che modo? Scegliendo e privilegiando, nei vostri progetti, le realtà più povere e disprezzate come luoghi speciali in cui rimanere, e come “terre promesse” verso cui mettervi in marcia e in cui “piantare le vostre tende” per iniziare nuove opere (cfr Dt 1,8). E farlo con una presenza concreta e vicina alle comunità che servite, dal di dentro, in loco, lavorando tra i poveri e condividendone il più possibile la vita. Solo così, infatti, si sente “il polso” dei bisogni reali dei fratelli e delle sorelle che il Signore mette sulla nostra strada; e soprattutto ci si arricchisce della luce, della forza e della saggezza che vengono dallo stare con Gesù, presente in modo unico nelle membra più sofferenti del suo Corpo.

E veniamo al secondo punto: lavorare insieme. Nelle vostre attività vi esorto a cercare sempre di fare sinergia, tra voi e con altre realtà religiose e associative. So che già collaborate, in varie opere, con le Suore Missionarie della Divina Volontà di Bassano del Grappa e con altre organizzazioni. È la strada giusta. Fare insieme, infatti, è già in sé un annuncio di Vangelo vissuto; e per voi, oltre che un modo intelligente di ottimizzare le risorse, è una via di formazione alla carità e alla comunione. Lo avete sottolineato dando a un vostro recente evento questo titolo: Agire insieme per progredire insieme”. Proprio così: agire insieme, infatti, non significa solo fare del bene, ma anche e soprattutto crescere uniti nel bene, gli uni a servizio e sostegno degli altri.

Fare insieme, infine, è anche un’espressione di fede nella Divina Provvidenza. Mons. Faresin la definiva “la fonte che maggiormente garantisce le risorse” per le opere che Dio richiede. E le risorse più importanti per le opere del Signore non sono le cose, ma siamo noi, messi sapientemente gli uni vicino agli altri perché condividiamo ciò che siamo: la nostra passione, la nostra creatività, le nostre competenze ed esperienze, e anche le nostre debolezze e fragilità. Da questo paziente mettere in comune, nella valorizzazione del contributo di ciascuno, vengono frutti di grande dinamicità e concretezza, come testimonia la storia passata e presente della vostra Fondazione.

Cari fratelli e sorelle, grazie per ciò che fate e per come lo fate; e perché con esso mantenete viva la memoria del cuore pastorale grande e generoso di Mons. Camillo Faresin. La Madonna vi custodisca nella carità umile e coraggiosa. Benedico voi e le vostre famiglie; e vi chiedo, per favore, di pregare per me.

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<![CDATA[Ai Partecipanti alla Plenaria del Dicastero per l'Evangelizzazione (Sezione per le questioni fondamentali dell'Evangelizzazione nel mondo) (15 marzo 2024)]]>Fri, 15 Mar 2024 10:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240315-dicastero-evangelizzazione.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240315-dicastero-evangelizzazione.html

Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di dare il benvenuto a voi, Superiori, Membri e Consultori del Dicastero per l’Evangelizzazione – Sezione per le questioni fondamentali nel mondo, riuniti in assemblea plenaria. È un momento importante per il confronto che i problemi dell’evangelizzazione comportano, soprattutto se lo sguardo è rivolto alle diverse regioni del mondo, così differenti tra loro per cultura e tradizione.

Il primo pensiero va alla condizione in cui versano diverse Chiese locali dove il secolarismo dei decenni passati ha creato enormi difficoltà: dalla perdita del senso di appartenenza alla comunità cristiana, all’indifferenza per quanto concerne la fede e i suoi contenuti. Sono problemi seri, con cui tanti fratelli ogni giorno devono confrontarsi, ma non bisogna perdersi d’animo. Il secolarismo è stato studiato e si sono scritte valanghe di pagine in proposito. Conosciamo gli effetti negativi che ha prodotto, ma questo è il tempo favorevole per comprendere quale risposta efficace siamo chiamati a dare alle giovani generazioni perché possano recuperare il senso della vita. Il richiamo all’autonomia della persona, avanzato come una delle pretese del secolarismo, non può essere teorizzato come indipendenza da Dio, perché è proprio Dio che garantisce la libertà all’agire personale. E riguardo alla nuova cultura digitale, che presenta tanti aspetti interessanti per il progresso dell’umanità – pensiamo alla medicina e alla salvaguardia del creato –, essa porta con sé anche una visione dell’uomo che appare problematica se riferita all’esigenza di verità che alberga in ogni persona, unita all’esigenza di libertà nei rapporti interpersonali e sociali.

Dunque, la grande problematica che sta davanti a noi è comprendere come superare la rottura che si è determinata nella trasmissione della fede. A tale scopo è urgente recuperare un’efficace relazione con le famiglie e con i centri di formazione. La fede nel Signore risorto, che è il cuore dell’evangelizzazione, per essere trasmessa richiede un’esperienza significativa vissuta in famiglia e nella comunità cristiana come incontro con Gesù Cristo che cambia la vita. Senza questo incontro, reale ed esistenziale, si sarà sempre sottoposti alla tentazione di fare della fede una teoria e non una testimonianza di vita.

Sempre riguardo alla questione prioritaria della trasmissione della fede, vi ringrazio per il servizio che date nel campo della catechesi. E lo fate anche avvalendovi del nuovo Direttorio, da voi elaborato nel 2020. Esso è uno strumento valido e può essere efficace, non solo per il rinnovamento della metodologia catechistica, ma direi soprattutto per il coinvolgimento della comunità cristiana nel suo insieme. In questa missione, un ruolo specifico è affidato a coloro che hanno ricevuto e riceveranno il ministero di Catechista, per essere rafforzati nel loro impegno al servizio dell’evangelizzazione. Auspico che i Vescovi sappiano alimentare e accompagnare le vocazioni a tale ministero, soprattutto tra i giovani, per consentire che sia ridotto il divario tra le generazioni e la trasmissione della fede non appaia come un compito affidato solo alle persone anziane. In questo senso, vi incoraggio a trovare le forme perché il Catechismo della Chiesa Cattolica possa continuare ad essere conosciuto, studiato, valorizzato, così che se ne traggano le risposte alle nuove esigenze che si manifestano con il passare dei decenni.

Un secondo tema che mi preme condividere con voi è la spiritualità della misericordia, come contenuto fondamentale nell’opera di evangelizzazione. La misericordia di Dio non viene mai meno e noi siamo chiamati a testimoniarla e a farla, per così dire, circolare nelle vene del corpo della Chiesa. Dio è misericordia: questo messaggio perenne è stato rilanciato con forza e modalità rinnovate da San Giovanni Paolo II per la Chiesa e l’umanità all’inizio del terzo millennio. La pastorale dei Santuari, che è una vostra competenza, richiede di essere impregnata di misericordia, perché quanti giungono in quei luoghi vi possano trovare delle oasi di pace e serenità. I Missionari della misericordia, con il loro servizio generoso al Sacramento della Riconciliazione, offrono una testimonianza che dovrebbe aiutare tutti i sacerdoti a riscoprire la grazia e la gioia di essere ministri di Dio che perdona sempre e senza limiti. Ministri di Dio che non solo attende ma va incontro, va in cerca, perché è Padre misericordioso, non padrone, è buon Pastore, non mercenario, ed è pieno di gioia quando può accogliere una persona che ritorna, oppure la ritrova mentre va errando nei suoi labirinti (cfr Gv 10; Lc 15). Quando l’evangelizzazione è compiuta con l’unzione e lo stile della misericordia trova maggior ascolto, e il cuore si apre con più disponibilità alla conversione. Si è toccati, infatti, in ciò di cui sentiamo di avere più bisogno, cioè l’amore puro, gratuito, che è sorgente di vita nuova.

Il terzo tema che desidero proporvi è la preparazione al Giubileo Ordinario del prossimo anno. Sarà un Giubileo in cui dovrà emergere la forza della speranza. Tra qualche settimana renderò pubblica la Lettera Apostolica per la sua indizione ufficiale: auspico che quelle pagine possano aiutare molti a riflettere e soprattutto a vivere concretamente la speranza. Questa virtù teologale è stata vista poeticamente come la “sorella più piccola” in mezzo alle altre due, fede e carità, ma senza la quale queste due non vanno avanti, non esprimono al meglio sé stesse. Il popolo santo di Dio ne ha tanto bisogno! Conosco il grande impegno che quotidianamente il Dicastero sta mettendo nell’organizzazione del prossimo Giubileo. Vi ringrazio e sono certo che tanta fatica porterà i suoi frutti. L’accoglienza dei pellegrini, comunque, ha bisogno di esprimersi, oltre che nelle opere strutturali e culturali che sono necessarie, anche nel consentire loro di vivere l’esperienza di fede, di conversione e di perdono, incontrando una comunità viva che ne dà testimonianza gioiosa e convinta.

E non dimentichiamo che questo anno che precede il Giubileo è dedicato alla preghiera. Abbiamo bisogno di riscoprire la preghiera come esperienza di stare alla presenza del Signore, di sentirci compresi, accolti e amati da Lui. Come ci ha insegnato Gesù, non si tratta di moltiplicare le nostre parole quanto, piuttosto, di dare spazio al silenzio per ascoltare la sua Parola e accoglierla nella nostra vita (cfr Mt 6,5-9). Incominciamo noi, fratelli e sorelle, a pregare di più, a pregare meglio, alla scuola di Maria e dei santi e delle sante.

Vi ringrazio del vostro lavoro di questi giorni e del vostro servizio alla Chiesa. Vi benedico di cuore e prego per voi. E anche voi, per favore, pregate per me. Grazie!

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<![CDATA[Ai partecipanti all'Incontro sui popoli indigeni, promosso dalle Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali [Casina Pio IV, 14-15 marzo 2024] (14 marzo 2024)]]>Thu, 14 Mar 2024 09:45:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240314-pas.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240314-pas.html

Care amiche e cari amici!

Vi do il benvenuto in occasione del convegno su Il sapere dei popoli indigeni e le scienze. Esso intende mettere insieme queste due forme di conoscenza per un approccio più comprensivo, più ricco, più umano ad alcune criticità urgenti, quali i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, le minacce alla sicurezza alimentare e alla salute, e altre.

Ringrazio il Cancelliere, Cardinale Turkson, e i Presidenti delle Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali per aver promosso questa iniziativa: è un contributo qualificato per riconoscere il grande valore della saggezza dei popoli nativi e favorire uno sviluppo umano integrale e sostenibile.

Ricordo che anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura – la FAO –, tre anni fa, ha organizzato giornate di studio sui sistemi alimentari indigeni. Ne è nata una Piattaforma che riunisce scienziati indigeni e non indigeni, studiosi ed esperti, per stabilire un dialogo volto a garantire la salvaguardia dei sistemi alimentari delle popolazioni originarie. Anche in continuità con quell’esperienza, accolgo con apprezzamento la vostra iniziativa che porta avanti tale ricerca.

Direi anzitutto che questa è un’opportunità per crescere nell’ascolto reciproco: ascoltare le popolazioni indigene, per imparare dalla loro sapienza e dal loro stile di vita, e nello stesso tempo ascoltare gli scienziati, per imparare dai loro studi.

Inoltre, questo seminario di studio lancia un messaggio ai governi e alle organizzazioni internazionali, perché riconoscano e rispettino la ricchezza della diversità all’interno della grande famiglia umana. Nel tessuto dell’umanità ci sono culture, tradizioni, spiritualità, lingue differenti che hanno bisogno di essere protette, perché la loro perdita costituirebbe per tutti noi un impoverimento della conoscenza, dell’identità, della memoria. Per questo è necessario che i progetti di ricerca scientifica, e dunque gli investimenti, siano orientati sempre più decisamente alla promozione della fratellanza umana, della giustizia e della pace, così che le risorse possano essere destinate in modo coordinato a rispondere alle sfide urgenti che interessano la casa comune e la famiglia dei popoli.

Ci rendiamo conto che, per realizzare tale obiettivo, si richiede una conversione, una visione alternativa a quella che oggi spinge il mondo sulla via di una crescente conflittualità. Incontri come il vostro vanno in questa direzione: infatti, il dialogo aperto tra i saperi originari e le scienze, tra le comunità di saggezza nativa e quelle scientifiche può contribuire ad affrontare in modo nuovo, più integrale e anche più efficace questioni cruciali come, ad esempio, quelle dell’acqua, del cambiamento climatico, della fame, della biodiversità. Questioni che, come ben sappiamo, sono tutte tra loro connesse.

Grazie a Dio non mancano segnali positivi in tal senso, come l’inclusione da parte delle Nazioni Unite dei saperi indigeni quale componente centrale del Decennio Internazionale delle Scienze per lo Sviluppo Sostenibile. Un segno da promuovere e da sostenere, unendo insieme le forze. Per questo, nel dialogo tra saperi indigeni e scienza, dobbiamo avere ben chiaro e tenere sempre presente che tutto questo patrimonio di conoscenze va utilizzato per imparare a superare i conflitti in modo non violento e a contrastare la povertà e le nuove forme di schiavitù. Dio, Creatore e Padre di tutti gli esseri umani e di tutto ciò che esiste, ci chiama oggi a vivere e a testimoniare la nostra vocazione alla fraternità universale, alla libertà, alla giustizia, al dialogo, all’incontro reciproco, all’amore e alla pace, evitando di alimentare l’odio, i rancori, le divisioni, la violenza e la guerra.

Dio ci ha fatto custodi e non padroni del pianeta: siamo chiamati tutti a una conversione ecologica (cfr Enc. Laudato si, 216-221), impegnati a salvare la nostra casa comune e a vivere una solidarietà intergenerazionale per salvaguardare la vita delle generazioni future, invece che dissipare le risorse e aumentare le disuguaglianze, lo sfruttamento e la distruzione.

Cari rappresentanti delle comunità indigene e cari scienziati, vi ringrazio del vostro impegno e vi incoraggio ad attingere dal patrimonio di saggezza dei vostri antenati e dai frutti delle ricerche dei vostri laboratori la linfa vitale per continuare a lavorare insieme per la verità, la libertà, il dialogo, la giustizia e la pace. La Chiesa è con voi, alleata dei popoli indigeni e del loro sapere, e alleata della scienza per far crescere nel mondo la fraternità e l’amicizia sociale.

Vi accompagno con la mia preghiera e, nel rispetto delle convinzioni di ciascuno, invoco su di voi la benedizione di Dio. E anche voi, nel modo che vi è proprio, pregate per me. Grazie.

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<![CDATA[Udienza Generale del 13 marzo 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 11.<i>L'agire virtuoso</i>]]>Wed, 13 Mar 2024 09:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240313-udienza-generale.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240313-udienza-generale.html

Catechesi. I vizi e le virtù. 11. L'agire virtuoso

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Dopo aver concluso la carrellata sui vizi, è giunto il momento di rivolgere lo sguardo sul quadro simmetrico, che sta in opposizione all’esperienza del male. Il cuore dell’uomo può assecondare cattive passioni, può dare ascolto a tentazioni nocive travestite con vesti suadenti, ma può anche opporsi a tutto questo. Per quanto ciò possa risultare faticoso, l’essere umano è fatto per il bene, che lo realizza veramente, e può anche esercitarsi in quest’arte, facendo sì che alcune disposizioni divengano in lui o in lei permanenti. La riflessione intorno a questa nostra meravigliosa possibilità forma un capitolo classico della filosofia morale: il capitolo delle virtù.

I filosofi romani la chiamavano virtus, quelli greci aretè. Il termine latino evidenzia soprattutto che la persona virtuosa è forte, coraggiosa, capace di disciplina ed ascesi; dunque l’esercizio delle virtù è frutto di una lunga germinazione, che richiede fatica e anche sofferenza. La parola greca, aretè, indica invece qualcosa che eccelle, qualcosa che emerge, che suscita ammirazione. La persona virtuosa è pertanto quella che non si snatura deformandosi ma è fedele alla propria vocazione, realizza pienamente sé stessa.

Saremmo fuori strada se pensassimo che i santi siano delle eccezioni dell’umanità: una sorta di ristretta cerchia di campioni che vivono al di là dei limiti della nostra specie. I santi, in questa prospettiva che abbiamo appena introdotto riguardo alle virtù, sono invece coloro che diventano pienamente sé stessi, che realizzano la vocazione propria di ogni uomo. Che mondo felice sarebbe quello in cui la giustizia, il rispetto, la benevolenza reciproca, la larghezza d’animo, la speranza fossero la normalità condivisa, e non invece una rara anomalia! Ecco perché il capitolo sull’agire virtuoso, in questi nostri tempi drammatici nei quali facciamo spesso i conti con il peggio dell’umano, dovrebbe essere riscoperto e praticato da tutti. In un mondo deformato dobbiamo fare memoria della forma con cui siamo stati plasmati, dell’immagine di Dio che in noi è impressa per sempre.

Ma come possiamo definire il concetto di virtù? Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci offre una definizione precisa e sintetica: «La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene» (N. 1803). Non è dunque un bene improvvisato e un po’ casuale, che piove dal cielo in maniera episodica. La storia ci dice che anche i criminali, in un momento di lucidità, hanno compiuto atti buoni; certamente questi atti sono scritti nel “libro di Dio”, ma la virtù è un’altra cosa. È un bene che nasce da una lenta maturazione della persona, fino a diventare una sua caratteristica interiore. La virtù è un habitus della libertà. Se siamo liberi in ogni atto, e ogni volta siamo chiamati a scegliere tra bene e male, la virtù è ciò che ci permette di avere una consuetudine verso la scelta giusta.

Se la virtù è un dono così bello, subito nasce una domanda: come è possibile acquisirla? La risposta a questa domanda non è semplice, è complessa.

Per il cristiano il primo aiuto è la grazia di Dio. Infatti, in noi battezzati agisce lo Spirito Santo, che lavora nella nostra anima per condurla a una vita virtuosa. Quanti cristiani sono arrivati alla santità attraverso le lacrime, constatando di non riuscire a superare certe loro debolezze! Ma hanno sperimentato che Dio ha completato quell’opera di bene che per loro era solo un abbozzo. Sempre la grazia precede il nostro impegno morale.

Inoltre, non si deve mai dimenticare la ricchissima lezione che ci è arrivata dalla saggezza degli antichi, che ci dice che la virtù cresce e può essere coltivata. E perché ciò avvenga, il primo dono dello Spirito da chiedere è proprio la sapienza. L’essere umano non è libero territorio di conquista di piaceri, di emozioni, di istinti, di passioni, senza poter fare nulla contro queste forze, a volte caotiche, che lo abitano. Un dono inestimabile che possediamo è l’apertura mentale, è la saggezza che sa imparare dagli errori per indirizzare bene la vita. Poi ci vuole la buona volontà: la capacità di scegliere il bene, di plasmare noi stessi con l’esercizio ascetico, rifuggendo gli eccessi.

Cari fratelli e sorelle, cominciamo così il nostro viaggio attraverso le virtù, in questo universo sereno che si presenta impegnativo, ma decisivo per la nostra felicità.

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier les nombreux groupes scolaires venus de France. Frères et sœurs, en ce temps béni de Carême, tournons-nous vers la Sainte Vierge, Siège de la Sagesse, afin que par son intercession nous nous mettions au service du bien. Que Dieu vous bénisse !

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i numerosi gruppi scolastici venuti dalla Francia. Fratelli e sorelle, in questo tempo benedetto di Quaresima, rivolgiamoci alla Madonna, Sede della Sapienza, affinché con la sua intercessione ci aiuti a metterci al servizio del bene. Dio vi benedica!]

I greet all the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from the Netherlands and the United States of America. With prayerful good wishes that this Lenten season will be a time of grace and spiritual renewal for you and your families, I invoke upon all of you joy and peace in our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti dai Paesi Bassi e dagli Stati Uniti d’America. Con fervidi auguri che questa Quaresima sia per voi e per le vostre famiglie un tempo di grazia e di rinnovamento spirituale, invoco su tutti la gioia e la pace del Signore Gesù.  Dio vi benedica!

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, vergessen wir nicht, dass der Herr selbst uns auf dem Pfad der Tugenden begleitet. Vertrauen wir also auf seine Hilfe, damit wir in dieser Welt das Gute verbreiten können, dessen sie so sehr bedarf.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, non dimentichiamoci che il Signore stesso ci accompagna sul sentiero delle virtù. Confidiamo dunque nel suo aiuto per poter diffondere nel mondo il bene di cui ha tanto bisogno.]

El Santo Padre saluda cordialmente a los peregrinos de lengua española. Pidamos al Espíritu Santo el don de sabiduría para que nos ayude a tomar decisiones y a ejercitar las virtudes, orientando nuestra vida por el camino del bien. Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Queridos peregrinos de língua portuguesa, bem-vindos! O Senhor vos encha de alegria e o Espírito Santo ilumine as decisões da vossa vida, para realizardes fielmente a vontade do Pai celeste. Sobre todos vós e vossas famílias e comunidades, vele a Santíssima Mãe da Igreja.

[Cari pellegrini di lingua portoghese, benvenuti! Il Signore vi ricolmi di gioia e lo Spirito Santo illumini le decisioni della vostra vita, per adempiere fedelmente il volere del Padre celeste. Su tutti voi e le vostre famiglie e comunità, vegli la Santissima Madre della Chiesa.]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة. المسيحيُّ مَدعُوٌّ إلى أنْ يُنَمِّيَ الفضيلةَ في حياتِهِ، لأنَّها تَسمَحُ له ليسَ فقط بأنْ يَعمَلَ أعمالًا صالِحَة، بل لأنْ يُعطِيَ أفضلَ ما فيهِ. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Il cristiano è chiamato a coltivare nella sua vita la virtù, perché essa gli consente, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga ‎sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Pozdrawiam serdecznie Polaków. W tych dramatycznych czasach, kiedy często spotykamy się z tym, co w człowieku najgorsze, potrzeba na nowo odkryć znaczenie pielęgnowania w sobie trwałej dyspozycji do czynienia dobra. Uczcie się tego od waszych Świętych, szukając pomocy w łasce Bożej. Z serca wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i polacchi. In questi nostri tempi drammatici, nei quali facciamo spesso i conti con quanto vi è di peggio nella persona umana, è necessario riscoprire l’importanza di coltivare in noi stessi una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Imparate questo dai vostri Santi, cercando l’aiuto della grazia di Dio. Vi benedico di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alle Capitolari delle Carmelitane Missionarie e alle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, che incoraggio a custodire il patrimonio spirituale dei rispettivi Istituti religiosi.

Saluto i fedeli della parrocchia di Santa Maria Goretti in Frigole, i devoti di Santa Domenica provenienti da diverse località, la Facoltà di Diritto Canonico San Pio X di Venezia: auspico che ciascuno sappia rispondere alla vocazione cristiana offrendo un valido contributo alla crescita armonica della società. Un saluto va anche agli Allievi della Scuola Sottufficiali della Marina Militare di Taranto, che esorto a svolgere il servizio con lealtà e generosità.

Il mio pensiero va infine ai malati, agli anziani, agli sposi novelli e ai giovani, specialmente ai tanti studenti presenti, in particolare all’Istituto Carbone e Rosati di Sora. Tutti invito a proseguire con impegno nell’itinerario quaresimale, pronti a compiere gesti di cristiana solidarietà ovunque la Provvidenza vi chiama ad operare.

E, per favore, perseveriamo nella fervida preghiera per quanti soffrono le terribili conseguenze della guerra. Oggi mi hanno portato un rosario e un Vangelo di un giovane soldato morto al fronte: lui pregava con questo. Tanti giovani, tanti giovani vanno a morire! Preghiamo il Signore perché ci dia la grazia di vincere questa pazzia della guerra che sempre è una sconfitta. A tutti voi la mia Benedizione!

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<![CDATA[Messaggio del Santo Padre ai partecipanti al III Congresso Latinoamericano sul tema "Vulnerabilità e abuso" [Panama, 12-14 de marzo 2024] (1° marzo 2024)]]>Tue, 12 Mar 2024 15:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240301-messaggio-congresso-latinoamericano.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240301-messaggio-congresso-latinoamericano.html

Stimati congressisti,

Desidero inviare il mio saluto a voi organizzatori e partecipanti a questo III Congresso Latinoamericano promosso dal CEPROME con il titolo «Vulnerabilità e abuso: verso una visione più ampia della prevenzione» e affidare al Signore i vostri lavori per continuare ad avanzare nello sradicamento del flagello degli abusi in tutti gli ambiti della società.

Nel mio incontro dello scorso 25 settembre con una delegazione di questo Consiglio, ho evidenziato l’impegno della Chiesa nel vedere in ciascuna delle vittime il volto di Gesù sofferente. Ma anche la necessità di porre ai suoi piedi  «la sofferenza che abbiamo ricevuto e causato», pregando «per i peccatori più infelici e disperati, per la loro conversione, affinché possano vedere nell’altro gli occhi di Gesù che li interpellano».

In quella occasione vi ho invitati, e vi invito anche oggi, a vedere questa problematica con gli occhi di Dio, a stabilire un dialogo con Lui. Questo sguardo divinizzato può aiutare la nostra comprensione della vulnerabilità, poiché il Signore ha tratto “forza dalla debolezza, facendo della fragilità la sua propria testimonianza” (cfr. Prefazio dei martiri, I). Dio ci chiama a un cambiamento assoluto di mentalità sulla nostra concezione delle relazioni privilegiando il minore, il povero, il servitore, l’ignorante rispetto al maggiore, al ricco, al padrone, al colto, in base alla capacità di accogliere la grazia che ci viene data da Dio e di farci noi stessi dono per gli altri.

Vedere la propria fragilità come una scusa per smettere di essere persone serie e cristiani integri, incapaci di assumere il controllo del proprio destino, creerà persone infantili, risentite, e in nessun modo rappresenta la piccolezza a cui ci invita Gesù. Al contrario, la forza di colui che, come san Paolo, si vanta delle proprie debolezze e confida nella grazia del Signore (cfr. 2 Cor 12, 8-10) è un dono che dobbiamo chiedere in ginocchio per noi e per gli altri. Con essa, potremo affrontare le contraddizioni della vita e dare un contributo al bene comune nella vocazione alla quale siamo stati chiamati.

Riguardo alla prevenzione, i nostri lavori devono senza dubbio mirare a sradicare le situazioni che proteggono chi si fa scudo della sua posizione per imporsi all’altro in modo perverso, ma anche a comprendere perché è incapace di relazionarsi con gli altri in maniera sana. Allo stesso modo, non può essere indifferente la ragione per cui alcuni accettano di andare contro la propria coscienza, per timore, o si lasciano abbindolare con false promesse, sapendo nel profondo del loro cuore di essere sulla strada sbagliata. Umanizzare i rapporti in ogni società, anche nella Chiesa, significa lavorare con coraggio per formare persone mature, coerenti, che, salde nella loro fede e nei loro principi etici, siano capaci di affrontare il male, rendendo testimonianza alla verità con la maiuscola.

Una società che non sarà basata su questi presupposti di integrità morale, sarà una società malata, con relazioni umane e istituzionali snaturate dall’egoismo, dalla sfiducia dalla paura e dall’inganno. Ma noi affidiamo la nostra debolezza alla forza che il Signore ci dà.  E riconosciamo che «abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7).

Chiediamo al Re dei martiri questa grazia per essere suoi testimoni nel mondo. Che Egli vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 1° marzo 2024

Francesco

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 60, martedì 12 marzo 2024, p. 8.

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<![CDATA[Angelus, 10 marzo 2024]]>Sun, 10 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240310-angelus.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240310-angelus.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa quarta domenica di Quaresima il Vangelo ci presenta la figura di Nicodemo (cfr Gv 3,14-21), un fariseo, «uno dei capi dei Giudei» (Gv 3,1). Egli ha visto i segni che Gesù ha compiuto, ha riconosciuto in Lui un maestro mandato da Dio ed è andato a incontrarlo di notte, per non essere visto. Il Signore lo accoglie, dialoga con lui e gli rivela di essere venuto non a condannare ma a salvare il mondo (cfr v. 17). Fermiamoci a riflettere su questo: Gesù non è venuto a condannare, ma a salvare. È bello, eh!

Spesso nel Vangelo vediamo Cristo svelare le intenzioni delle persone che incontra, a volte smascherandone atteggiamenti falsi, come con i farisei (cfr Mt 23,27-32), o facendole riflettere sul disordine della loro vita, come con la Samaritana (cfr Gv 4,5-42). Davanti a Gesù non ci sono segreti: Egli legge nel cuore, nel cuore di ognuno di noi. E questa capacità potrebbe inquietare perché, se usata male, nuoce alle persone, esponendole a giudizi privi di misericordia. Nessuno infatti è perfetto, tutti siamo peccatori, tutti sbagliamo, e se il Signore usasse la conoscenza delle nostre debolezze per condannarci, nessuno potrebbe salvarsi.

Ma non è così. Egli infatti non se ne serve per puntarci il dito contro, ma per abbracciare la nostra vita, per liberarci dai peccati e per salvarci. A Gesù non interessa farci processi o sottoporci a sentenze; Egli vuole che nessuno di noi vada perduto. Lo sguardo del Signore su ognuno di noi non è un faro accecante che abbaglia e mette in difficoltà, ma il chiarore gentile di una lampada amica, che ci aiuta a vedere in noi il bene e a renderci conto del male, per convertirci e guarire con il sostegno della sua grazia.

Gesù non è venuto a condannare, ma a salvare il mondo. Pensiamo a noi, che tante volte, tante volte che condanniamo gli altri; tante volte che ci piace sparlare, cercare pettegolezzi contro gli altri. Chiediamo al Signore che ci dia a tutti questo sguardo di misericordia, di guardare agli altri come Lui ci guarda a tutti noi.

Maria ci aiuti a desiderare il bene gli uni degli altri.

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Dopo Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Due giorni fa si è celebrata la Giornata internazionale della donna. Vorrei rivolgere un pensiero ed esprimere la mia vicinanza a tutte le donne, specialmente a quelle la cui dignità non viene rispettata. C’è ancora tanto lavoro che ciascuno di noi deve fare perché sia riconosciuta concretamente la pari dignità delle donne. Sono le istituzioni, sociali e politiche, che hanno il dovere fondamentale di proteggere e promuovere la dignità di ogni essere umano, offrendo alle donne, portatrici di vita, le condizioni necessarie per poter accogliere il dono della vita e assicurare ai figli un’esistenza degna.

Seguo con preoccupazione e dolore la grave crisi che colpisce Haiti e i violenti episodi avvenuti negli ultimi giorni. Sono vicino alla Chiesa e al caro popolo haitiano, che da anni è provato da molte sofferenze. Vi invito a pregare, per intercessione della Madonna del Perpetuo Soccorso, perché cessi ogni sorta di violenza e tutti offrano il loro contributo per far crescere la pace e la riconciliazione nel Paese, con il sostegno rinnovato della Comunità internazionale.

Stasera i fratelli musulmani inizieranno il Ramadan: esprimo a tutti loro la mia vicinanza.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare, saluto gli studenti del collegio Irabia-Izaga di Pamplona, i pellegrini di Madrid, Murcia, Malaga e quelli di St. Mary’s Plainfield - New Jersey.

Saluto i ragazzi della Prima Comunione e della Cresima della parrocchia Nostra Signora di Guadalupe e San Filippo Martire in Roma; i fedeli di Reggio Calabria, Quartu Sant’Elena e Castellamonte.

Accolgo con affetto la comunità cattolica della Repubblica Democratica del Congo a Roma. Preghiamo per la pace in questo Paese, come pure nella martoriata Ucraina e in Terra Santa. Cessino al più presto le ostilità che provocano immani sofferenze nella popolazione civile.

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

 

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<![CDATA[Celebrazione penitenziale e Confessioni (Parrocchia di San Pio V all'Aurelio, 8 marzo 2024)]]>Fri, 08 Mar 2024 16:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2024/documents/20240308-omelia-penitenza.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2024/documents/20240308-omelia-penitenza.html

«Possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4): così scrive l’apostolo Paolo ai primi cristiani di questa Chiesa di Roma. Ma che cos’è la vita nuova di cui parla? È la vita che nasce dal Battesimo, il quale ci immerge nella morte e nella risurrezione di Gesù e ci fa per sempre figli di Dio, figli della risurrezione destinati alla vita eterna, orientati alle cose di lassù. È la vita che ci porta avanti nella nostra identità più vera, quella di essere figli amati del Padre, così che ogni tristezza e ostacolo, ogni fatica e tribolazione non possano prevalere su questa meravigliosa realtà che ci fonda: siamo figli del Dio buono.

Abbiamo sentito che San Paolo associa alla vita nuova un verbo: camminare. Dunque la vita nuova, iniziata nel Battesimo, è un cammino. E non c’è pensione, in questo! Nessuno in questo cammino va in pensione, si va sempre avanti. E dopo tanti passi nel cammino, forse abbiamo perso di vista la vita santa che scorre dentro di noi: giorno dopo giorno, immersi in un ritmo ripetitivo, presi da mille cose, frastornati da tanti messaggi, cerchiamo ovunque soddisfazioni e novità, stimoli e sensazioni positive, ma dimentichiamo che c’è già una vita nuova che scorre dentro di noi e che, come brace sotto la cenere, attende di divampare e fare luce a tutto quanto. Quando noi siamo indaffarati in tante cose, pensiamo allo Spirito Santo che è dentro di noi e ci porta? A me succede tante volte di non pensarci, ed è brutto. Essere così, presi da tanti travagli, ci fa dimenticare il vero cammino che stiamo facendo nella vita nuova.

Dobbiamo cercare le braci sotto la cenere, quella cenere che si è depositata sul cuore e nasconde alla vista la bellezza della nostra anima, la nasconde. Allora Dio, che nella vita nuova è nostro Padre, ci appare come un padrone; invece di affidarci a Lui, contrattiamo con Lui; invece di amarlo, lo temiamo. E gli altri, anziché essere fratelli e sorelle, in quanto figli dello stesso Padre, ci sembrano ostacoli e avversari. C’è una brutta abitudine: quella di trasformare i nostri compagni di cammino in avversari. E tante volte lo facciamo. I difetti del prossimo ci paiono esagerati e i loro pregi nascosti; quante volte siamo inflessibili con gli altri e indulgenti con noi stessi! Avvertiamo una forza inarrestabile a compiere il male che vorremmo evitare. Un problema di tutti, se persino San Paolo scrive, sempre alla comunità di Roma: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7,19). Anche lui era un peccatore, e anche noi tante volte facciamo il male che non vogliamo. Insomma, annebbiato il volto di Dio, offuscati quelli dei fratelli, sfocata la grandezza che ci portiamo dentro, restiamo in cammino, ma abbiamo bisogno di una segnaletica nuova, abbiamo bisogno di un cambio di passo, di una direzione che ci aiuti a ritrovare la via del Battesimo, cioè a rinnovare la nostra bellezza originaria che è lì sotto le ceneri, rinnovare il senso di andare avanti. E quante volte ci stanchiamo di camminare e perdiamo il senso di andare avanti? Restiamo tranquilli, o nemmeno tranquilli, ma fermi.

Fratelli, sorelle, qual è la via per riprendere il cammino della vita nuova? Per questa Quaresima e per riprendere il cammino, qual è la via? È la via del perdono di Dio. Mettete questo nella mente e nel cuore: Dio non si stanca mai di perdonare. Avete sentito? Siete capaci di ripeterlo con me? Insieme, tutti: [tutti] Dio non si stanca mai di perdonare. Per essere sicuri, un’altra volta: [tutti] Dio non si stanca mai di perdonare. Ma qual è il dramma? Che siamo noi a stancarci di chiedere perdono! Ma Lui non si stanca mai di perdonare. Non dimentichiamo questo. E il perdono divino fa proprio questo: ci rimette a nuovo, come appena battezzati. Ci ripulisce dentro, facendoci tornare alla condizione della rinascita battesimale: fa scorrere di nuovo le fresche acque della grazia nel cuore, inaridito dalla tristezza e impolverato dai peccati. Il Signore toglie la cenere dalla brace dell’anima, deterge quelle macchie interiori che impediscono di confidare in Dio, di abbracciare i fratelli, di amare noi stessi. Lui perdona tutto. “Oh Padre, io ho un peccato che sicuramente è imperdonabile”. Senti: Dio perdona tutto, perché Lui non si stanca mai di perdonare. Il perdono di Dio ci trasforma dentro: ci restituisce una vita e una vista nuova. Non a caso nel Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù proclama: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Ci prepara gli occhi per vedere Dio. Si vede Dio solo se il cuore viene purificato: purificare il cuore per vedere Dio. Ma chi può fare questa purificazione? Il nostro impegno è necessario, ma non basta; non basta, siamo deboli, non possiamo; solo Dio conosce e guarisce il cuore. Mettetevi questo bene nella mente: solo Dio è capace di conoscere e guarire il cuore, solo Lui può liberarlo dal male. Perché ciò avvenga occorre portargli il nostro cuore aperto e contrito; imitare il lebbroso del Vangelo, che lo prega così: «Se vuoi, puoi purificarmi!» (Mc 1,40). È bello questo! “Se tu vuoi, puoi cambiarmi dentro, puoi purificarmi”. È una bella preghiera questa, e noi possiamo ripeterla insieme, qui, tutti. Insieme: “Signore, se tu vuoi, puoi purificarmi”. Un’altra volta: [tutti] “Signore, se tu vuoi, puoi purificarmi”. E adesso, in silenzio, ognuno la dica al Signore, guardando ai propri peccati. Guardate i peccati, guardate le cose brutte che avete dentro e che avete fatto; in silenzio dite al Signore: “Signore, se tu vuoi, puoi purificarmi”. E Lui può. Qualcuno pensa: “Ma questo peccato è troppo brutto, il Signore non potrà…”. Il Signore perdona tutto, il Signore non si stanca di perdonare. Ricordate? Ripetetelo: “Il Signore non si stanca di perdonare”. Tutti insieme: [tutti] “Il Signore non si stanca di perdonare”.

Il Signore vuole questo, perché ci desidera rinnovati, liberi, leggeri dentro, felici e in cammino, non parcheggiati sulle strade della vita. Lui sa quanto è facile per noi inciampare, cadere e rimanere a terra, e vuole rialzarci. Ho visto un bel dipinto, dove c’è il Signore che si china per rialzare noi. E questo fa il Signore ogni volta che noi ci accostiamo alla Confessione. Non rattristiamolo, non rimandiamo l’incontro con il suo perdono, perché solo se rimessi in piedi da Lui possiamo riprendere il cammino e vedere la sconfitta del nostro peccato, cancellato per sempre. Perché il peccato sempre è una sconfitta, ma Lui vince il peccato, Lui è la vittoria. Di più, «nel medesimo istante in cui il peccatore è perdonato, afferrato da Dio e restaurato dalla grazia, il peccato – meraviglia delle meraviglie! – diventa il luogo in cui Dio entra in contatto con l’uomo. […] Così Dio si fa conoscere perdonando» (A. Louf, Sotto la guida dello Spirito, Magnano 1990, 68-69). “Io conosco Dio studiando la catechesi…”. Ma non lo conosci soltanto con la mente: soltanto quando il cuore è pentito e vai da Lui, mostrando il tuo cuore sporco, lì conoscerai Dio che perdona. “Vai in pace, i peccati ti sono perdonati”. Dio si fa conoscere perdonando. E «il peccatore, scrutando l’abisso del proprio peccato, scopre da parte sua l’infinito della misericordia» (ibid.) E questa è la ripartenza della vita nuova: cominciata nel Battesimo, riparte dal perdono.

Non rinunciamo al perdono di Dio, al sacramento della Riconciliazione: non è una pratica di devozione, ma il fondamento dell’esistenza cristiana; non è questione di saper dire bene i peccati, ma di riconoscerci peccatori e di buttarci tra le braccia di Gesù crocifisso per essere liberati; non è un gesto moralistico, ma la risurrezione del cuore. Il Signore risorto ci risuscita, tutti noi. Andiamo dunque a ricevere il perdono di Dio e noi, che lo amministriamo, sentiamoci dispensatori della gioia del Padre che ritrova il figlio smarrito; sentiamo che le nostre mani, poste sul capo dei fedeli, sono quelle forate di misericordia di Gesù, che trasforma le piaghe del peccato in canali di misericordia. E noi che facciamo da confessori, sentiamo che «il perdono e la pace» che proclamiamo sono la carezza dello Spirito Santo sul cuore dei fedeli. Cari fratelli, perdoniamo! Cari fratelli sacerdoti, perdoniamo, perdoniamo sempre come Dio che non si stanca di perdonare, e ritroveremo noi stessi. Concediamo sempre il perdono a chi lo domanda e aiutiamo chi prova timore ad accostarsi con fiducia al sacramento della guarigione e della gioia. Rimettiamo il perdono di Dio al centro della Chiesa! E voi, cari fratelli sacerdoti, non domandate troppo: che dicano, e tu perdona tutto. Non andare a indagare, no.

E ora, prepariamoci ad accogliere la vita nuova, confessiamo al Signore che c’è tanto di vecchio in noi, cose brutte... La lebbra del peccato ha macchiato la nostra bellezza e allora diciamo: Gesù, se vuoi, puoi purificarmi! Tutti insieme: [tutti] “Gesù, se vuoi, puoi purificarmi”. Dal pensare di non avere bisogno ogni giorno di te: [tutti] Gesù, se vuoi, puoi purificarmi! Dal convivere pacificamente con le mie doppiezze, senza ricercare nel tuo perdono la via della libertà: [tutti] Gesù, se vuoi, puoi purificarmi! Quando ai buoni propositi non seguono i fatti, quando rimando la preghiera e l’incontro con te: [tutti] Gesù, se vuoi, puoi purificarmi! Quando scendo a patti col male, con la disonestà, con la falsità, quando giudico gli altri, li disprezzo e sparlo di loro, recriminando su tutti e tutto: [tutti] Gesù, se vuoi, puoi purificarmi! E quando mi accontento di non fare del male, ma non compio del bene servendo nella Chiesa e nella società: [tutti] Gesù, se vuoi, puoi purificarmi! Sì, Gesù, credo che puoi purificarmi, credo che ho bisogno del tuo perdono. Gesù, rinnovami e tornerò a camminare in una vita nuova. [tutti] Gesù, se vuoi, puoi purificarmi.

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<![CDATA[Ai Partecipanti al Corso sul foro interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica (8 marzo 2024)]]>Fri, 08 Mar 2024 10:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240308-corso-penitenzieria.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240308-corso-penitenzieria.html

Discorso del Santo Padre consegnato

Cari fratelli, buongiorno e benvenuti!

Sono lieto di incontrarvi in occasione dell’annuale Corso sul Foro Interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica. Rivolgo un saluto cordiale al Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, al Reggente, Mons. Nykiel, ai Prelati, agli Officiali e al Personale della Penitenzieria, ai Collegi dei Penitenzieri ordinari e straordinari delle Basiliche Papali in Urbe, e a tutti voi partecipanti al corso.

Nel contesto della Quaresima e, in particolare, dell’Anno della preghiera in preparazione al Giubileo, vorrei proporvi di riflettere assieme su un’orazione semplice e ricca, che appartiene al patrimonio del santo Popolo fedele di Dio e che recitiamo durante il rito della Riconciliazione: l’Atto di dolore.

Nonostante il linguaggio un po’ antico, che potrebbe anche essere frainteso in alcune sue espressioni, questa preghiera conserva tutta la sua validità, sia pastorale che teologica. Del resto ne è autore il grande Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, maestro della teologia morale, pastore vicino alla gente e uomo di grande equilibrio, lontano sia dal rigorismo sia dal lassismo.

Mi soffermerò su tre atteggiamenti espressi nell’Atto di dolore e che penso possano aiutarci a meditare sul nostro rapporto con la misericordia di Dio: pentimento davanti a Dio, fiducia in Lui e proposito di non ricadere.

Primo: il pentimento. Esso non è il frutto di un’autoanalisi né di un  senso psichico di colpa, ma sgorga tutto dalla consapevolezza della nostra miseria di fronte all’amore infinito di Dio, alla sua misericordia senza limiti. È questa esperienza infatti a muovere il nostro animo a chiedergli perdono, fiduciosi nella sua paternità, come recita la preghiera: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo, con tutto il cuore, dei miei peccati», e più avanti aggiunge: «perché ho offeso Te, infinitamente buono». In realtà, nella persona, il senso del peccato è proporzionale proprio alla percezione dell’infinito amore di Dio: più sentiamo la sua tenerezza, più desideriamo di essere in piena comunione con Lui e più ci si mostra evidente la bruttezza del male nella nostra vita. Ed è proprio questa consapevolezza, descritta come “pentimento” e “dolore”, che ci spinge a riflettere su noi stessi e sui nostri atti e a convertirci. Ricordiamoci che Dio non si stanca mai di perdonarci, e da parte nostra non stanchiamoci mai di chiedergli perdono!

Secondo atteggiamento: la fiducia. Nell’Atto di dolore Dio è descritto come «infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa». È bello sentire, sulle labbra di un penitente, il riconoscimento dell’infinita bontà di Dio e del primato, nella propria vita, dell’amore per Lui. Amare «sopra ogni cosa», significa infatti mettere Dio al centro di tutto, come luce nel cammino e fondamento di ogni ordine di valori, affidandogli ogni cosa. Ed è un primato, questo, che anima ogni altro amore: per gli uomini e per il creato, perché chi ama Dio ama il fratello (cfr 1 Gv 4,19-21) e cerca il suo bene, sempre, nella giustizia e nella pace.

Terzo aspetto: il proposito. Esso esprime la volontà del penitente di non ricadere più nel peccato commesso (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1451), e permette l’importante passaggio dall’attrizione alla contrizione, dal dolore imperfetto a quello perfetto (cfr ivi, 1452-1453). Noi manifestiamo questo atteggiamento dicendo: «Propongo, con il tuo santo aiuto, di non offenderti mai più». Queste parole esprimono un proposito, non una promessa. Infatti, nessuno di noi può promettere a Dio di non peccare più, e ciò che è richiesto per ricevere il perdono non è una garanzia di impeccabilità, ma un proposito attuale, fatto con retta intenzione nel momento della confessione. Inoltre, è un impegno che assumiamo sempre con umiltà, come sottolineano le parole «con il tuo santo aiuto». San Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, usava ripetere che «Dio ci perdona anche se sa che peccheremo di nuovo». E del resto, senza la sua grazia, nessuna conversione sarebbe possibile, contro ogni tentazione di pelagianesimo vecchio o nuovo.

Vorrei infine richiamare alla vostra attenzione la bellissima conclusione della preghiera: «Signore, misericordia, perdonami». Qui i termini “Signore” e “misericordia” appaiono come sinonimi, e questo è decisivo! Dio è misericordia (cfr 1 Gv 4,8), la misericordia è il suo nome, il suo volto. Ci fa bene ricordarlo, sempre: in ogni atto di misericordia, in ogni atto d’amore, traspare il volto di Dio.

Carissimi, il compito che vi è affidato nel confessionale è bello e cruciale, perché vi permette di aiutare tanti fratelli e sorelle a sperimentare la dolcezza dell’amore di Dio. Vi incoraggio, pertanto, a vivere ogni confessione come un unico e irripetibile momento di grazia, e a donare generosamente il perdono del Signore, con affabilità, paternità e oserei dire anche con tenerezza materna.

Vi invito a pregare e a impegnarvi perché quest’anno di preparazione al Giubileo possa veder fiorire la misericordia del Padre in molti cuori e in molti luoghi, e così Dio sia sempre più amato, riconosciuto e lodato.

Vi ringrazio per l’apostolato che svolgete – o che ad alcuni di voi presto verrà affidato –. La Madonna, Madre della misericordia, vi accompagni. Anch’io vi porto nella mia preghiera e vi benedico di cuore. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

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<![CDATA[Videomessaggio del Santo Padre per il Concierto "Cadena 100 Por La Paz" (7 marzo 2024)]]>Thu, 07 Mar 2024 10:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240307-videomessaggio-concierto.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240307-videomessaggio-concierto.html

Cari fratelli e sorelle,

Di fronte a tante vittime, distruzione, lacrime in tanti popoli devastati dalla guerra - penso alla martirizzata Ucraina, ma anche alla Palestina, a Israele - vi ringrazio per l’iniziativa di questo concerto di pace.

Ringrazio gli artisti che hanno unito il talento a tanta generosità per aiutare vittime innocenti, ma soprattutto perché hanno dimostrato che l’arte e la musica possono diventare messaggeri, strumento di pace per costruire ponti.

Grazie per non esservi voltati dall’altra parte, grazie per esservi impegnati con quanti stanno subendo direttamente gli effetti delle guerre.

Grazie a “Cadena 100” per averlo organizzato, e a tutti coloro che generosamente forniscono aiuto umanitario a più di 200 famiglie colpite dalla guerra (in Cisgiordania).

Vi benedico di cuore e, per favore, non smettete di pregare per me. Grazie.

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<![CDATA[Ai Partecipanti al Congresso Internazionale Interuniversitario (7 marzo 2024)]]>Thu, 07 Mar 2024 10:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240307-congresso-interuniversitario.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240307-congresso-interuniversitario.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, venuti da vari Paesi per partecipare al Convegno Donne nella Chiesa: artefici dell’umano. Grazie per la vostra presenza e per aver organizzato e promosso questo evento.

Esso valorizza in particolare la testimonianza di santità di dieci donne. Le voglio nominare: Giuseppina Bakhita, Magdeleine di Gesù, Elizabeth Ann Seton, Maria MacKillop, Laura Montoya, Kateri Tekakwitha, Teresa di Calcutta, Rafqa Pietra Choboq Ar-Rayès, Maria Beltrame Quattrocchi e Daphrose Mukasanga.

Tutte loro, in differenti tempi e culture, con stili propri e diversi, e con iniziative di carità, di educazione e di preghiera, hanno dato prova di come il “genio femminile” sappia riflettere in modo unico la santità di Dio nel mondo. Anzi, proprio in epoche nelle quali le donne erano maggiormente escluse dalla vita sociale ed ecclesiale, «lo Spirito Santo ha suscitato sante il cui fascino ha provocato nuovi dinamismi spirituali e importanti riforme nella Chiesa». Non solo, ma mi preme anche «ricordare tante donne sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo, hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza» (Esort. ap. Gaudete ed exsultate, 12). E la Chiesa ha bisogno di questo, perché la Chiesa è donna: figlia, sposa e madre, e chi più della donna può rivelarne il volto? Aiutiamoci, senza forzature e senza strappi, ma con accurato discernimento, docili alla voce dello Spirito e fedeli nella comunione, a individuare vie adeguate perché la grandezza e il ruolo delle donne siano maggiormente valorizzati nel Popolo di Dio.

Avete scelto un’espressione particolare per intitolare il vostro Convegno, definendo le donne “Artefici dell’umano”. Sono parole che richiamano ancora più chiaramente la natura della loro vocazione: quella di essere “artigiane”, collaboratrici del Creatore a servizio della vita, del bene comune, della pace. E vorrei sottolineare due aspetti di questa missione, riguardanti lo stile e la formazione.

Anzitutto lo stile. Il nostro è un tempo lacerato dall’odio, in cui l’umanità, bisognosa di sentirsi amata, è invece spesso sfregiata dalla violenza, dalla guerra e da ideologie che affogano i sentimenti più belli del cuore. E proprio in questo contesto, il contributo femminile è più che mai indispensabile: la donna, infatti, sa unire con la tenerezza. Santa Teresa di Gesù Bambino diceva di voler essere, nella Chiesa, l’amore. E aveva ragione: la donna infatti, con la sua capacità unica di compassione, con la sua intuitività e con la sua connaturale propensione a “prendersi cura”, sa in modo eminente essere, per la società, “intelligenza  e cuore che ama e che unisce”, mettendo amore dove non c’è amore, umanità dove l’essere umano fatica a ritrovare sé stesso.

Secondo aspetto: la formazione. Avete organizzato questo Convegno con la collaborazione di varie realtà accademiche cattoliche. E in effetti, nell’ambito della pastorale universitaria, proporre agli alunni, oltre all’approfondimento accademico della dottrina e del messaggio sociale della Chiesa, testimonianze di santità, specialmente al femminile, incoraggia ad elevare lo sguardo, a dilatare l’orizzonte dei sogni e del modo di pensare e a disporsi a seguire alti ideali. La santità può così diventare come una linea educativa trasversale in tutto l’approccio al sapere. Per questo auspico che i vostri ambienti, oltre ad essere luoghi di studio, di ricerca e di apprendimento, luoghi “informativi”, siano anche contesti “formativi”, dove si aiuta ad aprire la mente e il cuore all’azione dello Spirito Santo. Perciò è importante far conoscere i santi, e specialmente le sante, in tutto lo spessore e in tutta la concretezza della loro umanità: così la formazione sarà ancora più capace di toccare ogni persona nella sua integralità e nella sua unicità.

Un’ultima cosa a proposito della formazione: nel mondo, dove le donne soffrono ancora tante violenze, disparità, ingiustizie e maltrattamenti – e ciò è scandaloso, ancor più per chi professa la fede nel Dio «nato da donna» (Gal 4,4) – c’è una forma grave di discriminazione, che è proprio legata alla formazione della donna. Essa è infatti temuta in molti contesti, ma la via per società migliori passa proprio attraverso l’istruzione delle bambine, delle ragazze e delle giovani, di cui beneficia lo sviluppo umano. Preghiamo e impegniamoci per questo!

Care sorelle e fratelli, affido al Signore i frutti del vostro Convegno e vi accompagno con la mia benedizione. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

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<![CDATA[Ai Membri della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori (7 marzo 2024)]]>Thu, 07 Mar 2024 09:30:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240307-pc-tutela-minori.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240307-pc-tutela-minori.html

Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di darvi il benvenuto in occasione della vostra Assemblea plenaria. Vi ringrazio di cuore per il vostro lavoro, che è molto importante, e anche per la vostra testimonianza personale e collettiva.

Molti di voi infatti hanno dedicato la loro vita a prendersi cura delle vittime di abusi: è una vocazione coraggiosa, che nasce dal cuore della Chiesa e la aiuta a purificarsi e a crescere. Negli ultimi dieci anni il vostro compito di offrire «consiglio e consulenza e altresì proporre le più opportune iniziative per la salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili» (Praedicate Evangelium, art. 78) si è notevolmente allargato. Esso ha assunto una fisionomia più definita, dal momento che vi ho chiesto di concentrarvi nell’aiutare a rendere la Chiesa un luogo sempre più sicuro per i minori e gli adulti più fragili. Mi rallegra vedere che oggi siete qui numerosi, come pure poter ascoltare gli aggiornamenti sulle vostre attività. Vi esorto a continuare in questo servizio, con spirito di squadra: costruendo ponti e collaborazioni che possano rendere più efficace la vostra cura per gli altri.

Avete dedicato tempo e impegno a completare il Rapporto Annuale sulle Politiche e le Procedure di Tutela nella Chiesa, che vi ho chiesto di preparare. Esso non dovrebbe essere semplicemente un documento in più, ma aiutarci a capire meglio il lavoro che ancora ci attende.

Di fronte allo scandalo degli abusi e alla sofferenza delle vittime  potremmo scoraggiarci, perché la sfida di ricostruire il tessuto di vite infrante e di guarire il dolore è grande e complessa. Ma non deve venire meno il nostro impegno; anzi, vi incoraggio ad andare avanti, perché la Chiesa sia sempre e dappertutto un luogo dove ciascuno possa sentirsi a casa e ogni persona sia ritenuta sacra.

Per vivere bene questo servizio dobbiamo fare nostri i sentimenti di Cristo: la sua compassione, il suo modo di toccare le ferite dell’umanità, il suo Cuore trafitto d’amore per noi. Gesù è Colui che si è fatto vicino; nella sua carne Dio Padre si è avvicinato a noi oltre ogni limite e, così, ci mostra che non è distante dai nostri bisogni e dalle nostre preoccupazioni. In Gesù Egli si fa carico delle nostre sofferenze e porta su di sé le nostre piaghe, come afferma il quarto poema del Servo sofferente nel Libro del profeta Isaia (cfr 53,4). E anche noi, impariamolo: non possiamo aiutare un altro a portare i suoi pesi senza metterli sulle nostre spalle, senza praticare la vicinanza e la compassione.

Nel nostro ministero ecclesiale di tutela, la vicinanza alle vittime di abuso non è un concetto astratto: è una realtà molto concreta, fatta di ascolto, di interventi, di prevenzione, di aiuto. Siamo chiamati tutti – in particolare le autorità ecclesiastiche – a conoscere direttamente l’impatto degli abusi e a lasciarci scuotere dalla sofferenza delle vittime, ascoltando direttamente la loro voce e praticando quella prossimità che, attraverso scelte concrete, le sollevi, le aiuti e prepari un futuro diverso per tutti.

La risposta a coloro che hanno subito abusi nasce da questo sguardo del cuore, da questa vicinanza. Non deve accadere che questi fratelli e sorelle non vengano accolti e ascoltati, perché questo può aggravare moltissimo la loro sofferenza. C’è bisogno di prendersene cura con un impegno personale, così come è necessario che ciò sia portato avanti con l’aiuto di collaboratori competenti.

Ringrazio voi per tutto quello che fate per accompagnare le vittime e i sopravvissuti. Gran parte di questo servizio viene svolto in modo riservato, come è giusto che sia per rispetto delle persone. Ma, nello stesso tempo, i suoi frutti dovrebbero diventare visibili: si dovrebbe sapere e vedere il lavoro che fate accompagnando il ministero di tutela delle Chiese locali. La vostra vicinanza alle autorità delle Chiese locali le rafforzerà nella condivisione di buone pratiche e nella verifica dell’adeguatezza delle misure che sono state poste in atto. Vi ho già chiesto di assicurare la conformità con Vos estis lux mundi, in modo che ci siano mezzi affidabili per accogliere e prendersi cura di vittime e sopravvissuti, come anche per assicurare che l’esperienza e la testimonianza di queste comunità sostenga il lavoro di protezione e prevenzione.

So che il vostro servizio alle Chiese locali sta già portando grandi frutti e sono incoraggiato nel vedere l’iniziativa Memorare prendere forma, in collaborazione con le Chiese di tanti Paesi del mondo. Questo è un modo molto concreto per la Commissione di dimostrare la sua vicinanza alle autorità di queste Chiese, mentre rafforzate gli sforzi esistenti per la tutela. Col tempo, ciò darà vita a una rete di solidarietà con le vittime e con coloro che promuovono i loro diritti, specialmente dove le risorse e l’esperienza scarseggiano.

Cari fratelli e sorelle, grazie per il vostro delicato e importante servizio. Le vostre osservazioni ci manterranno in cammino nella giusta direzione, perché la Chiesa continui a impegnarsi con tutte le sue forze nella prevenzione degli abusi, nella loro ferma condanna, nell’attenzione compassionevole verso le vittime e nell’impegno costante per essere luogo ospitale e sicuro. Grazie per la vostra perseveranza e per la testimonianza di speranza che offrite. Vi benedico di cuore, prego per voi e vi chiedo di pregare per me.

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<![CDATA[Messaggio del Santo Padre in occasione del Laboratorio “L’ontologia sociale e il diritto naturale dell’Aquinate in prospettiva. Approfondimenti per e dalle Scienze Sociali”, Patrocinato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (7 marzo 2024)]]>Thu, 07 Mar 2024 08:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240307-messaggio-laboratorio-pass.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2024/documents/20240307-messaggio-laboratorio-pass.html

Mi ha fatto molto piacere apprendere che la Pontificia Accademia di Scienze Sociali abbia scelto di celebrare il 750° anniversario della morte di San Tommaso d’Aquino sponsorizzando un Laboratorio sul tema: “Ontologia sociale e diritto naturale dell’Aquinate in prospettiva. Approfondimenti per e dalle Scienze Sociali”. Esprimo la mia gratitudine a tutti i partecipanti a questo importante incontro e nella preghiera offro i miei auspici per la fecondità delle vostre discussioni.

Sicuramente San Tommaso non ha coltivato le scienze sociali così come noi le intendiamo oggi. Tuttavia, il suo studio rigoroso delle implicazioni filosofiche e teologiche del dato biblico che l’uomo è creato: «a immagine di Dio» (Gn 1,27), che trovò espressione nei suoi vari scritti, si può dire che abbia contribuito a preparare la strada allo sviluppo di queste scienze moderne. L’opera di Tommaso dimostra sia il suo impegno a comprendere la Parola di Dio rivelata in tutte le sue dimensioni, sia, al tempo stesso, la sua notevole apertura a ogni verità accessibile alla ragione umana. Il Dottore Angelico era profondamente convinto che, dal momento che Dio è la verità e la luce che illumina ogni comprensione, non ci possa essere alcuna contraddizione di fondo tra la verità rivelata e quella scoperta attraverso la ragione. Centrale alla sua comprensione del rapporto tra fede e ragione era la sua convinzione del potere del dono divino della grazia di risanare la natura umana indebolita dal peccato e di elevare la mente attraverso la partecipazione alla conoscenza e all’amore di Dio, e di conseguenza di abilitarci a comprendere e ordinare in modo corretto le nostre vite come singoli e come società.

Le scienze sociali contemporanee si accostano alle tematiche dell’uomo e al perseguimento dello sviluppo umano attraverso una serie di approcci e metodi che dovrebbero essere fondati nell’irriducibile realtà e dignità della persona umana. L’Aquinate è stato in grado di attingere ad una ricca eredità filosofica che ha interpretato attraverso le lenti del Vangelo, allo scopo di affermare che la persona, come «quanto di più nobile si trova in tutto l‘universo» (ST I, q. 29, a. 3) [testo in italiano tratto da Somma Teologica, Nuova Edizione in lingua italiana a cura di P.Tito S. Centi e P. Angelo Z. Belloni, 2009, ndt], è il pilastro dell’ordine sociale. Creati ad immagine e somiglianza di Dio Unitrino, gli individui sono destinati, attraverso relazioni personali e interpersonali, a vivere, crescere e svilupparsi in comunità. Per questa ragione, «è naturale che gli esseri umani vivano in società con molti altri, per procurarsi, con il loro lavoro manuale e fisico, illuminati dalla luce della loro intelligenza e dalla forza della loro volontà, i beni materiali e spirituali per il loro benessere e buon vivere, per la loro felicità» (De regno, B. I. c. 1).

Attingendo da principi già stabiliti da Aristotele, Tommaso così sosteneva che i beni spirituali precedono quelli materiali e che il bene comune della società precede quello degli individui, in quanto l’uomo è per natura un “animale politico”. Il suo legame con le opere etiche e politiche dei grandi pensatori classici appare evidente dai suoi commentari, e si riflette specialmente nelle questioni che dedica alla giustizia, in particolare nel suo celebre Trattato sul Diritto (ST I-II, qq. 90-108). Mentre è indubitabile la sua influenza nel dar forma al pensiero morale e giuridico moderno, un recupero della prospettiva filosofica e teologica che ha informato la sua opera può risultare alquanto promettente per la nostra disciplinata riflessione sulle pressanti questioni sociali del nostro tempo.

L’Aquinate sostiene l’intrinseca dignità e unità della persona umana, che appartiene sia al mondo fisico in virtù del corpo che a quello spirituale in virtù dell’anima razionale: una creatura capace di distinguere tra vero e falso in base al principio di non-contraddizione, ma anche di discernere il bene dal male. Questa capacità innata di discernere e di ordinare o disporre atti al loro fine ultimo attraverso l’amore, chiamata tradizionalmente “legge naturale”, come dichiara il Catechismo della Chiesa Cattolica, citando Tommaso: «altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce o questa legge Dio l'ha donata alla creazione» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1955).

Oggi è essenziale recuperare una considerazione di questa «inclinazione naturale a conoscere la verità su Dio, e a vivere in società» (ST I-II, q. 92, a. 2) al fine di modellare il pensiero sociale e le politiche in modalità che promuovano, anziché impedire, l’autentico sviluppo umano dei singoli e dei popoli. Per questo motivo, il mio Predecessore e io abbiamo riaffermato costantemente l’importanza della legge naturale nelle discussioni concernenti le sfide etiche e politiche del nostro tempo. Con le parole di Benedetto XVI, «una tale legge morale universale è saldo fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e politico e consente al multiforme pluralismo delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca del vero, del bene e di Dio» (Lett. Enc. Caritas in Veritate, 59).

La fiducia di Tommaso in una legge naturale scritta nel cuore dell’uomo può così offrire freschi e validi spunti al nostro mondo globalizzato, dominato dal positivismo giuridico e dalla casistica, anche se continua a cercare solide fondamenta per un giusto e umano ordine sociale. Infatti, seguendo Aristotele, Tommaso era ben consapevole della complessità che comporta applicare la legge alle azioni concrete, e perciò enfatizzava l’importanza della virtù di epikeia. Con le sue parole: «gli atti umani, che sono oggetto della legge, consistono in fatti contingenti e singolari, che possono variare in infiniti modi […]. Ma in certi casi osservare queste leggi sarebbe contro la giustizia e contro il bene comune, che è lo scopo della legge». Di conseguenza: «è invece un bene seguire ciò che esige il senso della giustizia e il bene comune, trascurando la lettera della legge» (ST II_II, q. 120, a. 1).

Se il Dottore Angelico fonda la sua comprensione della dignità dell’uomo e le esigenze di un’”ontologia sociale” nella natura umana, e dunque nell’ordine della creazione, come pensatore cristiano egli, necessariamente, aggiunge anche che la nostra natura umana, ferita dal peccato, è guarita ed elevata dalla grazia, frutto della redenzione operata da Cristo. All’inizio della sua grande Cristologia, la terza parte della Summa Theologiae, Tommaso afferma, in continuità con l’insegnamento delle Scritture e dei Padri della Chiesa, che l’Incarnazione del Figlio di Dio rivela la suprema dignità della natura umana. Questa convinzione è stata eloquentemente riaffermata nel nostro tempo dall’insegnamento del Concilio Vaticano II, che cioè: «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a sé stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (Cost. Past. Gaudium et spes, 22). La pienezza di grazia presente nell’umanità del Redentore è poi comunicata alle membra del suo Corpo, la Chiesa, a cui tutta l’umanità è chiamata. Come Capo di quel Corpo, Cristo distribuisce la sua grazia in vari modi a ciascun membro, a seconda dei suoi unici doni e vocazioni.

L’intuizione di Tommaso circa questa effusione di grazia redentiva e la varietà dei modi in cui tale grazia è comunicata per l’edificazione del Corpo ha ricche implicazioni per la comprensione delle dinamiche di un solido ordine sociale fondato sulla riconciliazione, sulla solidarietà, sulla giustizia e sulla cura reciproca. In questo senso Benedetto XVI poteva affermare che, proprio come oggetto dell’amore di Dio, l’uomo e la donna divengono a loro volta soggetti di carità, chiamati a riflettere tale carità e a tessere reti di carità (cfr Caritas in Veritate, 5) a servizio della giustizia e del bene comune.

È questa maggiore dinamica di carità ricevuta e donata che ha dato vita alla Dottrina sociale della Chiesa (cfr ibid), che cerca di esplorare come i benefici sociali della Redenzione possano rendersi visibili nella vita di uomini e donne, in quanto esseri sociali la cui individualità è ineluttabilmente immersa in una storia, cultura e tradizione più grande. Qui, fa notare Tommaso, vediamo il cuore della vita Cristiana come atto di culto sacerdotale volto alla glorificazione di Dio e alla santificazione del mondo. In questa prospettiva, il Dottore Angelico sostiene risolutamente la priorità delle opere di misericordia. Con le sue parole: «Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo: egli infatti non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo. Perciò la misericordia … è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo» (ST II-II, q. 30, a. 4 ad 1).

Cari amici, in questi anni del mio pontificato ho cercato di privilegiare il gesto della lavanda dei piedi, seguendo l’esempio di Gesù, che nell’Ultima Cena si è tolto il mantello e ha lavato i piedi dei suoi discepoli uno ad uno. La lavanda dei piedi è senza dubbio un simbolo eloquente delle Beatitudini proclamate dal Signore nel Discorso della Montagna e della loro concreta espressione in opere di misericordia. Con questo gesto, il Signore ha voluto lasciarci: «un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Di fatto, come insegna l’Aquinate, con un’azione così straordinaria Cristo: «ha mostrato tutte le opere di misericordia» (In Ioan. XIII). Gesù sapeva che, quando si tratta di ispirare il cuore dell’uomo, gli esempi sono più importanti di un fiume di parole.

In questi giorni, mentre vi accostate al ricco patrimonio di pensiero religioso, etico e sociale che San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato in eredità, ho fiducia che troverete ispirazione e illuminazione per i vostri propri contributi alle varie scienze sociali, nel rispetto dei loro propri metodi e obiettivi. Rinnovo i miei buoni auspici per le vostre decisioni e prego affinché ciascuno di voi, nel proprio lavoro e nella propria vita, trovi realizzazione nel nostro comune impegno di contribuire ad un futuro di fraternità, giustizia e pace per tutti i membri della nostra famiglia umana. Su ciascuno di voi, e sui vostri cari, invoco di cuore abbondanti benedizioni dal Signore.

Dal Vaticano, 7 marzo 2024

FRANCESCO

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<![CDATA[Udienza Generale del 6 marzo 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 10. <i>La superbia</i>]]>Wed, 06 Mar 2024 09:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240306-udienza-generale.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240306-udienza-generale.html

Catechesi. I vizi e le virtù. 10. La superbia

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro percorso di catechesi sui vizi e le virtù, oggi arriviamo all’ultimo dei vizi: la superbia. Gli antichi greci la definivano con un  vocabolo che si potrebbe tradurre “eccessivo splendore”. In effetti, la superbia è autoesaltazione, presunzione, vanità. Il termine compare anche in quella serie di vizi che Gesù elenca per spiegare che il male proviene sempre dal cuore dell’uomo (cfr Mc 7,22). Il superbo è uno che pensa di essere molto più di quanto sia in realtà; uno che freme per essere riconosciuto più grande degli altri, vuole sempre veder riconosciuti i propri meriti e disprezza gli altri ritenendoli inferiori.

Da questa prima descrizione, vediamo come il vizio della superbia sia molto prossimo a quello della vanagloria, che abbiamo già presentato la volta scorsa. Però, se la vanagloria è una malattia dell’io umano, essa è ancora una malattia infantile se paragonata allo scempio di cui è capace la superbia. Analizzando le follie dell’uomo, i monaci dell’antichità riconoscevano un certo ordine nella sequenza dei mali: si comincia dai peccati più grossolani, come può essere la gola, per approdare ai mostri più inquietanti. Di tutti i vizi, la superbia è gran regina. Non a caso, nella Divina Commedia, Dante la colloca proprio nella prima cornice del purgatorio: chi cede a questo vizio è lontano da Dio, e l’emendazione di questo male richiede tempo e fatica, più di ogni altra battaglia a cui è chiamato il cristiano.

In realtà, dentro questo male si nasconde il peccato radicale, l’assurda pretesa di essere come Dio. Il peccato dei nostri progenitori, raccontato dal libro della Genesi, è a tutti gli effetti un peccato di superbia. Dice loro il tentatore: «Quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio» (Gen 3,5). Gli scrittori di spiritualità sono più attenti a descrivere le ricadute della superbia nella vita di tutti i giorni, a illustrare come essa rovini i rapporti umani, a evidenziare come questo male avveleni quel sentimento di fraternità che dovrebbe invece accomunare gli uomini.

Ecco allora la lunga lista di sintomi che rivelano il cedimento di una persona al vizio della superbia. È un male con un evidente aspetto fisico: il superbo è altero, ha una “dura cervice”, cioè, ha un collo rigido, che non si piega. È un uomo facile al giudizio sprezzante: per un niente emette sentenze irrevocabili nei confronti degli altri, che gli paiono irrimediabilmente inetti e incapaci. Nella sua supponenza, si dimentica che Gesù nei Vangeli ci ha assegnato pochissimi precetti morali, ma su uno di essi si è dimostrato intransigente: non giudicare mai. Ti accorgi di avere a che fare con un orgoglioso quando, muovendo a lui una piccola critica costruttiva, o un’osservazione del tutto innocua, egli reagisce in maniera esagerata, come se qualcuno avesse leso la sua maestà: va su tutte le furie, urla, interrompe i rapporti con gli altri in modo risentito.

C’è poco da fare con una persona ammalata di superbia. È impossibile parlarle, tantomeno correggerla, perché in fondo non è più presente a sé stessa. Con essa bisogna solo avere pazienza, perché un giorno il suo edificio crollerà. Un proverbio italiano recita: “La superbia va a cavallo e torna a piedi”. Nei Vangeli Gesù ha a che fare con tanta gente superba, e spesso è andato a stanare questo vizio anche in persone che lo nascondevano molto bene. Pietro sbandiera la sua fedeltà a tutta prova: “Se anche tutti ti abbandonassero, io no!” (cfr Mt 26,33). Presto farà invece l’esperienza di essere come gli altri, anche lui pauroso davanti alla morte che non immaginava potesse essere così vicina. E così il secondo Pietro, quello che non solleva più il mento ma che piange lacrime salate, verrà medicato da Gesù e sarà finalmente adatto a reggere il peso della Chiesa. Prima sfoggiava una presunzione che era meglio non sbandierare; ora invece è un discepolo fedele che, come dice una parabola, il padrone può mettere “a capo di tutti i suoi averi” (Lc 12,44).

La salvezza passa per l’umiltà, vero rimedio ad ogni atto di superbia. Nel Magnificat, Maria canta il Dio che con la sua potenza disperde i superbi nei pensieri malati del loro cuore. È inutile rubare qualcosa a Dio, come sperano di fare i superbi, perché in fin dei conti Lui ci vuole donare tutto. Per questo l’apostolo Giacomo, alla sua comunità ferita da lotte intestine originate dall’orgoglio, scrive così: «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia» (Gc 4,6).

Dunque, cari fratelli e sorelle, approfittiamo di questa Quaresima per lottare contro la nostra superbia.

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier les fidèles du diocèse de Saint-Flour et les confirmands du diocèse de Séez, accompagnés de leurs évêques, ainsi que les nombreux groupes scolaires venus de France. Que la Vierge Marie nous apprenne à marcher humblement dans les pas du Christ. Que Dieu vous bénisse.

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i fedeli della diocesi di Saint-Flour e i cresimandi della diocesi di Séez, accompagnati dai loro Vescovi, come pure le numerose scolaresche provenienti dalla Francia. Che la Vergine Maria ci insegni a camminare umilmente sulle orme di Cristo. Che Dio vi benedica.]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from Wales, Denmark, Switzerland, Indonesia and the United States of America.  Upon all of you and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza. In particolare, saluto i gruppi provenienti da Galles, Danimarca, Svizzera, Indonesia e Stati Uniti d’America.  Su tutti voi e sulle vostre famiglie, invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, die Fastenzeit ist eine gute Gelegenheit, uns unsere Schwäche und Begrenztheit einzugestehen. Schreiten wir vertrauensvoll voran, denn der Herr beschenkt die Demütigen mit seiner Gnade.

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, la Quaresima è un tempo propizio per riconoscere la nostra debolezza e i nostri limiti. Procediamo fiduciosi perché il Signore ricolma gli umili della sua grazia.]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Pidamos a María que nos ayude a proclamar con nuestra vida el Magníficat, para poder ser testigos de la alegría del Evangelio con humildad y sencillez de corazón. Que Jesús los bendiga. Muchas gracias.

Caros peregrinos de língua portuguesa, sede bem-vindos. Particularmente durante este mês, convido cada um de vós a fixar o olhar em São José. A sua humildade e o seu silêncio ajudar-nos-ão a combater contra a tentação da soberba. Deus vos abençoe!

[Cari pellegrini di lingua portoghese, benvenuti! Particolarmente in questo mese, invito ciascuno di voi a rivolgere lo sguardo verso San Giuseppe. La sua umiltà e il suo silenzio ci aiuteranno a combattere contro la tentazione della superbia. Dio vi benedica!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة، وخاصَّةً شبيبةَ كاريتاس لبنان. في مسيرةِ الزَّمنِ الأربعينيّ، المَسِيحيُّ مَدعُوٌ إلى أنْ يُقاوِمَ الكِبرِياءَ بالتَّواضُع، الَّذي هو العِلاجُ الحَقِيقيُّ لكلِّ شكلٍ مِن أشكالِ تمجيدِ الذَّات، والغرور، والمجدِ الباطل. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba, in particolare i giovani della Caritas del Libano. Nel cammino quaresimale, il cristiano è chiamato a lottare contro la superbia con l’umiltà, vero rimedio ad ogni forma di autoesaltazione, presunzione e vanità. Il Signore benedica tutti e vi protegga da ogni male‎‎‎‏!]

Serdecznie pozdrawiam pielgrzymów polskich, w szczególności delegację z Podkarpacia, przybyłą w związku z 80. rocznicą śmierci błogosławionej rodziny Ulmów. Z tej okazji odbędzie się w Ogrodach Watykańskich uroczystość posadzenia jabłoni, zaszczepionej przez błogosławionego Józefa Ulmę. Wszystkim z serca błogosławię.

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi, in particolare la delegazione di Podkarpacie, venuta in occasione dell’80° anniversario dalla morte della beata famiglia Ulma. Per la ricorrenza, nei Giardini Vaticani si terrà una cerimonia per la piantumazione del melo innestato dal beato Józef Ulma. Benedico tutti di cuore.]

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.

In particolare saluto i fedeli di Scalea, accompagnati dal Vescovo Mons. Stefano Rega, che celebrano il giubileo della consacrazione della Chiesa della Santissima Trinità. Accolgo con affetto gli allievi, assieme ai loro formatori, del Seminario Interdiocesano di Pisa e gli ex alunni del Pontificio Collegio Lituano di San Casimiro a Roma, che rendono grazie al Signore per i Settantacinque anni della fondazione dell’Istituto: possiate conformare sempre più la vostra vita a Cristo Buon Pastore ed essere annunciatori gioiosi del Vangelo.

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. In questi giorni di Quaresima, continuate con coraggio nell’impegno di liberarvi da tutto ciò che maschera la vostra vita per ritornare con tutto il cuore a Dio, che ci ama con amore eterno.

Ancora una volta, fratelli e sorelle, rinnovo il mio invito a pregare per le popolazioni che soffrono l’orrore della guerra in Ucraina e in Terra Santa, come pure in altre parti del mondo. Preghiamo per la pace! Chiediamo al Signore il dono della pace!

A tutti la mia benedizione.

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<![CDATA[Angelus, 3 marzo 2024]]>Sun, 03 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240303-angelus.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2024/documents/20240303-angelus.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi il Vangelo ci mostra una scena dura: Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (cfr Gv 2,13-25), Gesù che allontana i venditori, rovescia i banchi dei cambiavalute e ammonisce tutti dicendo: «Non fate della casa del Padre mio un mercato» (v. 16). Soffermiamoci un po’ sul contrasto tra casa e mercato: si tratta infatti di due modi diversi di porsi davanti al Signore.

Nel tempio inteso come mercato, per essere a posto con Dio bastava comprare un agnello, pagarlo e consumarlo sulle braci dell’altare. Comprare, pagare, consumare, e poi ciascuno a casa sua. Nel tempio inteso invece come casa succede il contrario: si va per incontrare il Signore, per stare uniti a Lui, stare uniti ai fratelli, per condividere gioie e dolori. Ancora: al mercato si gioca sul prezzo, a casa non si calcola; al mercato si cercano i propri interessi, a casa si dà gratuitamente. E Gesù oggi è duro perché non accetta che il tempio-mercato si sostituisca al tempio-casa, non accetta che la relazione con Dio sia distante e commerciale anziché vicina e fiduciosa, non accetta che i banchi di vendita prendano il posto della mensa familiare, che i prezzi vadano al posto degli abbracci e le monete prendano il posto delle carezze. E perché Gesù non accetta questo? Perché così si crea una barriera tra Dio e l’uomo e tra fratello e fratello, mentre Cristo è venuto a portare comunione, a portare misericordia, cioè perdono, a portare vicinanza.

L’invito oggi, anche per il nostro cammino di Quaresima, è a fare in noi e attorno a noi più casa e meno mercato. Prima di tutto nei confronti di Dio: pregando tanto, come figli che senza stancarsi bussano fiduciosi alla porta del Padre, non come mercanti avari e diffidenti. Dunque, primo, pregando. E poi diffondendo fraternità: c’è bisogno di tanta fraternità! Pensiamo al silenzio imbarazzante, isolante, talvolta addirittura ostile che si incontra in tanti luoghi.

Chiediamoci, allora: prima di tutto, com’è la mia preghiera? È un prezzo da pagare o è il momento dell’abbandono fiducioso, dove non guardo all’orologio? E come sono i miei rapporti con gli altri? So dare senza aspettare il contraccambio? So fare il primo passo per rompere i muri del silenzio e i vuoti delle distanze? Queste domande dobbiamo farle a noi stessi.

Maria ci aiuti a “fare casa” con Dio, tra noi e attorno a noi.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Porto quotidianamente nel cuore, con dolore, la sofferenza delle popolazioni in Palestina e in Israele, dovuta alle ostilità in corso. Le migliaia di morti, di feriti, di sfollati, le immani distruzioni causano dolore, e questo con conseguenze tremende sui piccoli e gli indifesi, che vedono compromesso il loro futuro. Mi domando: davvero si pensa di costruire un mondo migliore in questo modo, davvero si pensa di raggiungere la pace? Basta, per favore! Diciamo tutti noi: basta, per favore! Fermatevi! Incoraggio a continuare i negoziati per un immediato cessate-il-fuoco a Gaza e in tutta la regione, affinché gli ostaggi siano subito liberati e tornino dai loro cari che li aspettano con ansia, e la popolazione civile possa avere accesso sicuro ai dovuti e urgenti aiuti umanitari. E per favore non dimentichiamo la martoriata Ucraina, dove ogni giorno muoiono tanti. C’è tanto dolore là.

Il 5 marzo ricorre la seconda Giornata internazionale per la consapevolezza sul disarmo e la non proliferazione. Quante risorse vengono sprecate per le spese militari che, a causa della situazione attuale, continuano tristemente ad aumentare! Auspico vivamente che la comunità internazionale comprenda che il disarmo è innanzitutto un dovere, il disamo è un dovere morale. Mettiamo questo in testa. E questo richiede il coraggio da parte di tutti i membri della grande famiglia delle Nazioni di passare dall’equilibrio della paura all’equilibrio della fiducia.

Saluto tutti voi, romani e pellegrini di vari Paesi. In particolare, saluto gli studenti dell’Università Sénior di Vila Pouca de Aguiar, in Portogallo; gli alunni dell’Istituto “Rodríguez Moñino” di Badajoz; e i gruppi parrocchiali dalla Polonia.

Saluto i cresimandi di Rosolina, in diocesi di Chioggia, con i familiari; i fedeli venuti da Padova, da Azzano Mella, Capriano e Fenili, da Taranto e dalla parrocchia S. Alberto Magno in Roma.

Un saluto affettuoso rivolgo ai giovani ucraini che la Comunità di Sant’Egidio ha convocato sul tema “Vinci il male con il bene. Preghiera, poveri, pace”. Cari giovani, grazie per il vostro impegno a favore di chi più soffre per la guerra. Grazie!

E auguro a tutti una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

 

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<![CDATA[Lettera del Santo Padre ai partecipanti alla VI Settimana sociale brasiliana (2 marzo 2024)]]>Sat, 02 Mar 2024 16:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240302-lettera-semana-social.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2024/documents/20240302-lettera-semana-social.html

Cari fratelli e sorelle,

Con il cuore pieno di speranza, mi rivolgo a tutti voi partecipanti alla VI Settimana Sociale Brasiliana, promossa dalla Commissione Episcopale Pastorale per l’Azione Socio-trasformatrice della CNBB con il tema: «Il Brasile che vogliamo, il Buon Vivere dei Popoli». Desidero assicurarvi della mia vicinanza e delle mie preghiere per il buon svolgimento dell’incontro e per i suoi frutti.

Fin dalla sua prima edizione nel 1991, la Settimana Sociale Brasiliana si propone come cammino per una «Chiesa in Uscita», impegnata ad abbattere i muri dello scarto e dell’indifferenza, accompagnando le persone più povere e prive dei diritti fondamentali nella loro lotta per la terra, la casa e il lavoro.

Propone inoltre una nuova economia, più solidale, e un rilancio dei valori democratici che aiutano a costruire una società dove ci sia una vera partecipazione popolare ai processi decisionali della Nazione.

Vi ringrazio vivamente per questo impegno e anche per la promozione, insieme ai giovani del Brasile, dell’«Economia di Chiara e Francesco». Vi sono parimenti grato perché promuovete l’appello che ho rivolto ai partecipanti all’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari nel 2014, affinché rispondessero «a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro » (Discorso, 28 ottobre 2014).

Spero dunque che il “Mutirão pela vida”, collettivo organicamente legato alla Settimana Sociale Brasiliana, produca abbondanti frutti a favore di una società più giusta, dove, come auspica la Campagna di Fraternità di quest’anno, si vivano la fratellanza universale e l’amicizia sociale.

In tal senso, cerchiamo di vedere in quanti sono costretti a vivere nella miseria a causa delle ingiustizie sociali il volto di Gesù che ci spinge a non rimanere indifferenti, poiché come Lui stesso ha detto: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

Affidando questi voti e queste preghiere all’intercessione di Nossa Senhora Aparecida, Regina e Patrona del Brasile, imparto a tutti di cuore la mia Benedizione, chiedendovi anche di non dimenticarvi di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 2 marzo 2024

FRANCESCO

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L'Osservatore Romano, Anno CLXIV n. 66, giovedì 21 marzo 2024, p. 

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<![CDATA[I Giornata Mondiale dei Bambini, 2024]]>Sat, 02 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/bambini/documents/20240302_messaggio-bambini.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/bambini/documents/20240302_messaggio-bambini.html

Care bambine e cari bambini!

Si avvicina la vostra prima Giornata Mondiale: sarà a Roma il 25 e 26 maggio prossimo. Per questo ho pensato di mandarvi un messaggio, sono felice che possiate riceverlo e ringrazio tutti coloro che si adopereranno per farvelo avere.

Lo rivolgo prima di tutto a ciascuno personalmente, a te, cara bambina, a te, caro bambino, perché «sei prezioso» agli occhi di Dio (Is 43,4), come ci insegna la Bibbia e come Gesù tante volte ha dimostrato.

Allo stesso tempo questo messaggio lo invio a tutti, perché tutti siete importanti, e perché insieme, vicini e lontani, manifestate il desiderio di ognuno di noi di crescere e rinnovarsi. Ci ricordate che siamo tutti figli e fratelli, e che nessuno può esistere senza qualcuno che lo metta al mondo, né crescere senza avere altri a cui donare amore e da cui ricevere amore (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 95).

Così tutti voi, bambine e bambini, gioia dei vostri genitori e delle vostre famiglie, siete anche gioia dell’umanità e della Chiesa, in cui ciascuno è come un anello di una lunghissima catena, che va dal passato al futuro e che copre tutta la terra. Per questo vi raccomando di ascoltare sempre con attenzione i racconti dei grandi: delle vostre mamme, dei papà, dei nonni e dei bisnonni! E nello stesso tempo di non dimenticare chi di voi, ancora così piccolo, già si trova a lottare contro malattie e difficoltà, all’ospedale o a casa, chi è vittima della guerra e della violenza, chi soffre la fame e la sete, chi vive in strada, chi è costretto a fare il soldato o a fuggire come profugo, separato dai suoi genitori, chi non può andare a scuola, chi è vittima di bande criminali, della droga o di altre forme di schiavitù, degli abusi. Insomma, tutti quei bambini a cui ancora oggi con crudeltà viene rubata l’infanzia. Ascoltateli, anzi ascoltiamoli, perché nella loro sofferenza ci parlano della realtà, con gli occhi purificati dalle lacrime e con quel desiderio tenace di bene che nasce nel cuore di chi ha veramente visto quanto è brutto il male.

Miei piccoli amici, per rinnovare noi stessi e il mondo, non basta che stiamo insieme tra noi: è necessario stare uniti a Gesù. Da lui riceviamo tanto coraggio: lui è sempre vicino, il suo Spirito ci precede e ci accompagna sulle vie del mondo. Gesù ci dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5); sono le parole che ho scelto come tema per la vostra prima Giornata Mondiale. Queste parole ci invitano a diventare agili come bambini nel cogliere le novità suscitate dallo Spirito in noi e intorno a noi. Con Gesù possiamo sognare un’umanità nuova e impegnarci per una società più fraterna e attenta alla nostra casa comune, cominciando dalle cose semplici, come salutare gli altri, chiedere permesso, chiedere scusa, dire grazie. Il mondo si trasforma prima di tutto attraverso le cose piccole, senza vergognarsi di fare solo piccoli passi. Anzi, la nostra piccolezza ci ricorda che siamo fragili e che abbiamo bisogno gli uni degli altri, come membra di un unico corpo (cfr Rm 12,5; 1 Cor 12,26).

E c’è di più. Infatti, care bambine e cari bambini, da soli non si può neppure essere felici, perché la gioia cresce nella misura in cui la si condivide: nasce con la gratitudine per i doni che abbiamo ricevuto e che a nostra volta partecipiamo agli altri. Quando quello che abbiamo ricevuto lo teniamo solo per noi, o addirittura facciamo i capricci per avere questo o quel regalo, in realtà ci dimentichiamo che il dono più grande siamo noi stessi, gli uni per gli altri: siamo noi il “regalo di Dio”. Gli altri doni servono, sì, ma solo per stare insieme. Se non li usiamo per questo saremo sempre insoddisfatti e non ci basteranno mai.

Invece se si sta insieme tutto è diverso! Pensate ai vostri amici: com’è bello stare con loro, a casa, a scuola, in parrocchia, all’oratorio, dappertutto; giocare, cantare, scoprire cose nuove, divertirsi, tutti insieme, senza lasciare indietro nessuno. L’amicizia è bellissima e cresce solo così, nella condivisione e nel perdono, con pazienza, coraggio, creatività e fantasia, senza paura e senza pregiudizi.

E adesso voglio confidarvi un segreto importante: per essere davvero felici bisogna pregare, pregare tanto, tutti i giorni, perché la preghiera ci collega direttamente a Dio, ci riempie il cuore di luce e di calore e ci aiuta a fare tutto con fiducia e serenità. Anche Gesù pregava sempre il Padre. E sapete come lo chiamava? Nella sua lingua lo chiamava semplicemente Abbà, che significa Papà (cfr Mc 14,36). Facciamolo anche noi! Lo sentiremo sempre vicino. Ce lo ha promesso Gesù stesso, quando ci ha detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Care bambine e cari bambini, sapete che a maggio ci troveremo in tantissimi a Roma, proprio con voi, che verrete da tutto il mondo! E allora, per prepararci bene, vi raccomando di pregare usando le stesse parole che Gesù ci ha insegnato: il Padre nostro. Recitatelo ogni mattina e ogni sera, e poi anche in famiglia, con i vostri genitori, fratelli, sorelle e nonni. Ma non come una formula, no! Pensando alle parole che Gesù ci ha insegnato. Gesù ci chiama e ci vuole protagonisti con Lui di questa Giornata Mondiale, costruttori di un mondo nuovo, più umano, giusto e pacifico.

Lui, che si è offerto sulla Croce per raccoglierci tutti nell’amore, Lui che ha vinto la morte e ci ha riconciliati col Padre, vuole continuare la sua opera nella Chiesa, attraverso di noi. Pensateci, in particolare quelli tra voi che vi preparate a ricevere la Prima Comunione.

Carissimi, Dio, che ci ama da sempre (cfr Ger 1,5), ha per noi lo sguardo del più amorevole dei papà e della più tenera delle mamme. Lui non si dimentica mai di noi (cfr Is 49,15) e ogni giorno ci accompagna e ci rinnova con il suo Spirito.

Insieme a Maria Santissima e a San Giuseppe preghiamo con queste parole:

Vieni, Santo Spirito,
mostraci la tua bellezza
riflessa nei volti
delle bambine e dei bambini della terra.
Vieni Gesù,
che fai nuove tutte le cose,
che sei la via che ci conduce al Padre,
vieni e resta con noi.
Amen.

Roma, San Giovanni in Laterano, 2 marzo 2024

FRANCESCO

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<![CDATA[Lettera Apostolica in forma di «Motu proprio» <i>Munus Tribunalis</i> con la quale viene modificata la Lex propria Supremi Tribunalis Signaturae Apostolicae del 21 giugno 2008 (28 febbraio 2024)]]>Sat, 02 Mar 2024 12:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/20240228-motu-proprio-munus-tribunalis.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/20240228-motu-proprio-munus-tribunalis.html

Nell’esercizio della funzione di Supremo Tribunale della Chiesa, la Segnatura Apostolica si pone al servizio del Supremo Ufficio pastorale del Romano Pontefice e della Sua Missione universale nel mondo. In questo modo, dirimendo le contese sorte per un atto di potestà amministrativa ecclesiastica, il Supremo Tribunale provvede al giudizio di legittimità sulle decisioni emanate dalle Istituzioni curiali nel loro servizio al Successore di Pietro e alla Chiesa Universale.

Considerato che il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica osserva non solo la legge universale (cfr. can. 1445 CIC) e la Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium (cfr. artt. 194-199 PE), ma è retto anche da una sua propria legge, ultimata la riforma della Curia Romana, ai sensi dell’art. 250 § 1 PE, si rende necessaria un’armonizzazione dei menzionati testi normativi, adeguando il testo della Lex propria, del 21 giugno 2008 (LPSA).

Pertanto, dispongo ora quanto segue:

Art. 1.

All’art. 1 § 2 LPSA, considerato quanto stabilito all’art. 195 § 1 PE, il termine “chierici” si sostituisce con il termine “presbiteri”, risultando l’articolo in parola così formulato:

«Coetui Membrorum adscribi quoque possunt aliqui presbyteri, integrae famae, in iure canonico doctores atque eximia doctrina canonica praediti».

Art. 2.

All’art. 3 LPSA, il termine “Dicastero” si sostituisce con il termine “Tribunale”, risultando l’articolo in parola così formulato:

«In Tribunali operam praestant Promotor iustitiae, Defensor vinculi, Promotores iustitiae Substituti et Praepositus Cancellariae, necnon congruus Officialium et Adiutorum numerus. Eidem adsunt, tamquam consultores, Referendarii».

Art. 3.

All’art. 32 LPSA, il termine “Dicastero” si sostituisce con il termine “Segnatura Apostolica”, risultando l’articolo in parola così formulato:

«Signatura Apostolica, praeter munus, quod exercet, Supremi Tribunalis, consulit ut iustitia in Ecclesia recte administretur».

Art. 4.

All’art. 34 § 1 LPSA, considerato quanto stabilito agli artt. 12 §§ 1-2 e 197 § 1 PE, l’espressione “emessi dai Dicasteri della Curia Romana” si sostituisce con l’espressione “emessi dalle Istituzioni curiali”, risultando l’articolo in parola così formulato:

«Signatura Apostolica cognoscit de recursibus, intra terminum peremptorium sexaginta dierum utilium interpositis, adversus actus administrativos singulares sive ab Institutis Curiae Romanae latos sive ab ipsis probatos, quoties contendatur num actus impugnatus legem aliquam in decernendo vel in procedendo violaverit».

Art. 5.

All’art. 34 § 3 LPSA, considerato quanto stabilito agli artt. 12 §§ 1-2; 22 e 197 § 3 PE, le espressioni “dai Dicasteri della Curia Romana” e “tra i medesimi Dicasteri” si sostituiscono con le espressioni “dalle Istituzioni curiali” e “tra le medesime Istituzioni”, risultando l’articolo in parola così formulato:

«Cognoscit etiam de aliis controversiis administrativis, quae a Romano Pontifice vel ab Institutis Curiae Romanae ipsi deferantur necnon de conflictibus competentiae inter eadem Instituta».

Art. 6.

All’art. 35, 5° LPSA, considerato quanto stabilito all’art. 198, 5° PE, l’espressione “promuovere e approvare l’istituzione dei tribunali interdiocesani” si sostituisce con l’espressione “approvare l’erezione di tribunali di ogni genere costituiti dai Vescovi di più Diocesi”, risultando l’articolo in parola così formulato:

«Signaturae Apostolicae quoque est rectae administrationi iustitiae invigilare, et speciatim: [...] 5° approbare erectionem tribunalium cuiusvis generis a pluribus dioecesanis Episcopis constitutorum».

Art. 7.

All’art. 79 § 1, 1° e 2°; 80; 81 § 1 e 92 § 1 LPSA, considerato quanto stabilito all’art. 12 §§ 1-2 PE, il termine “Dicastero” si sostituisce con il termine “Istituzione curiale” in tutte le ricorrenze. Pertanto, i testi dei rispettivi articoli vengono modificati e risultano così formulati:

Art. 79 § 1 LPSA:

«Secretarius, suo decreto,

1° iubet notificari competenti Instituto Curiae Romanae omnibusque legitime coram Instituto Curiae Romanae intervenientibus recursum receptum eosdemque invitat ut Patronum constituant per legitimum mandatum;

2° exquirit ab Instituto Curiae Romanae ut exemplar actus impugnati et omnia acta controversiam respicientia transmittat intra terminum triginta dierum».

Art. 80 LPSA:

«Si Institutum Curiae Romanae sibi Patronum non constituat, Praefectus eum ex officio nominat».

Art. 81 § 1 LPSA:

«Actis Instituti Curiae Romanae receptis, Secretarius recurrentis Patrono, de re certiore facto, decreto terminum praestituit ad exhibendum memoriale, in quo clare indicentur leges, quae violatae asseruntur, recursus illustretur, compleatur vel emendetur, atque forte ad ulteriora documenta exhibenda vel expetenda».

Art. 92 § 1 LPSA:

«Nisi aliud statuatur, sententiam exsecutioni mandare debet, per se vel per alium, Institutum Curiae Romanae, quod actum impugnatum tulerit aut probaverit».

Art. 8.

All’art. 105 LPSA, considerato quanto stabilito agli artt. 12 §§ 1-2; 22 e 197 § 3 PE, il termine “Dicasteri” si sostituisce con il termine “Istituzioni curiali”, risultando il titolo del Caput V del Titulus IV modificato in «De conflictibus competentiae inter Instituta Curiae Romanae» e l’articolo in parola così formulato:

«Orto conflictu competentiae inter Instituta Curiae Romanae, res, iis auditis et praehabito voto Promotoris iustitiae, expeditissime in Congressu dirimitur».

Quanto deliberato con questa Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando immediatamente in vigore, e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 28 febbraio dell’anno 2024, undicesimo del Pontificato.

FRANCESCO

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<![CDATA[Inaugurazione dell'Anno Giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano (2 marzo 2024)]]>Sat, 02 Mar 2024 10:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240302-inaugurazione-anno-giudiziario.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240302-inaugurazione-anno-giudiziario.html

Illustri Signore e Signori,
cari Magistrati!

Sono lieto di incontrarvi per l’inaugurazione del 95° anno giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano; rivolgo a tutti voi il mio saluto più cordiale.

Ringrazio per la loro presenza le Autorità civili e militari italiane.

Saluto il Presidente del Tribunale, il Presidente aggiunto e il Promotore di Giustizia, insieme ai Magistrati e ai collaboratori dei rispettivi uffici; come pure i Presidenti delle Corti d’Appello e di Cassazione. Vi ringrazio per il vostro servizio, delicato e impegnativo; e insieme a voi ringrazio per la qualificata collaborazione il Corpo della Gendarmeria.

In questa occasione desidero riflettere brevemente con voi su una virtù alla quale ripenso più volte seguendo le vicende che interessano l’amministrazione della giustizia, anche nello Stato della Città del Vaticano: mi riferisco al coraggio.

Per i cristiani questa virtù, che nelle difficoltà, unita alla fortezza, assicura la costanza nella ricerca del bene e rende capaci di affrontare la prova, non rappresenta solo una particolare qualità d’animo caratteristica di alcune persone eroiche. È piuttosto un tratto che viene donato e potenziato nell’incontro con Cristo, come frutto dell’azione dello Spirito Santo che chiunque può ricevere, se lo invoca. Il coraggio contiene una forza umile, che si appoggia sulla fede e sulla vicinanza di Dio e si esprime in modo particolare nella capacità di agire con pazienza e perseveranza, respingendo i condizionamenti interni ed esterni che ostacolano il compimento del bene. Questo coraggio disorienta i corrotti e li mette, per così dire, in un angolo, con il loro cuore chiuso e indurito.

Anche nelle società ben organizzate, ben regolate e supportate dalle istituzioni, sempre rimane necessario il coraggio personale per affrontare le diverse situazioni. Senza questa sana audacia, si rischia di cedere alla rassegnazione e si finisce per trascurare tanti piccoli e grandi soprusi. Chi è coraggioso non mira al proprio protagonismo, ma alla solidarietà con i fratelli e le sorelle che portano il peso delle loro paure e debolezze.

Questo coraggio noi lo vediamo con ammirazione in tanti uomini e donne che vivono prove durissime: pensiamo alle vittime delle guerre, o a quanti sono sottoposti a continue violazioni dei diritti umani, tra i quali i numerosi cristiani perseguitati. Davanti a queste ingiustizie, lo Spirito ci dà la forza di non rassegnarci, suscita in noi lo sdegno e il coraggio: lo sdegno di fronte a queste realtà inaccettabili e il coraggio per cercare di cambiarle.

Signore e Signori, con questo coraggio siamo chiamati ad affrontare anche le difficoltà della vita quotidiana, in famiglia e nella società, a impegnarci per il futuro dei nostri figli, a custodire la casa comune, ad assumerci le nostre responsabilità professionali. E ciò vale in modo particolare per l’ambito in cui voi operate, quello dell’amministrazione della giustizia. Infatti, insieme alle virtù della prudenza e della giustizia, che devono essere informate dalla carità, e insieme alla necessaria temperanza, il compito di giudicare richiede le virtù della fortezza e del coraggio, senza le quali la sapienza rischia di rimanere sterile.

Occorre coraggio per andare fino in fondo nell’accertamento rigoroso della verità, ricordando che fare giustizia è sempre un atto di carità, un’occasione di correzione fraterna che intende aiutare l’altro a riconoscere il suo errore. Ciò vale pure quando emergono e devono essere sanzionati comportamenti che sono particolarmente gravi e scandalosi, tanto più quando avvengono nell’ambito della comunità cristiana.

Bisogna avere coraggio mentre si è impegnati per assicurare il giusto svolgimento dei processi e si è sottoposti a critiche. La robustezza delle istituzioni e la fermezza nell’amministrazione della giustizia sono dimostrate dalla serenità di giudizio, dall’indipendenza e dall’imparzialità di quanti sono chiamati, nelle varie tappe del processo, a giudicare. La miglior risposta sono il silenzio operoso e la serietà dell’impegno nel lavoro, che consentono ai nostri Tribunali di amministrare la giustizia con autorevolezza e imparzialità, garantendo il giusto processo, nel rispetto delle peculiarità dell’ordinamento vaticano.

Occorre coraggio, infine, per implorare nella preghiera che la luce dello Spirito Santo illumini sempre il discernimento necessario per arrivare all’esito di una sentenza giusta. Anche in questo contesto vorrei ricordare che il discernimento si fa “in ginocchio”, implorando il dono dello Spirito Santo, in modo da poter giungere a decisioni che vanno nella direzione del bene delle persone e dell’intera comunità ecclesiale. In realtà, come recita la Legge CCCLI sull’ordinamento dello Stato, «amministrare la giustizia non è soltanto una necessità di ordine temporale. La virtù cardinale della giustizia, infatti, illumina e sintetizza la finalità stessa del potere giudiziario proprio di ogni Stato, per coltivare la quale è essenziale anzitutto l’impegno personale, generoso e responsabile, di quanti sono investiti della funzione giurisdizionale». Tale impegno chiede di essere sostenuto dalla preghiera. Non si deve temere di perdere tempo dedicandone ad essa in abbondanza. E anche per questo ci vuole coraggio e fortezza d’animo.

Cari Magistrati del Tribunale e dell’Ufficio del Promotore, vi auguro che nel vostro servizio alla giustizia possiate mantenere sempre, insieme alla prudenza, il coraggio cristiano. Prego il Signore affinché rafforzi in voi questa virtù. Di cuore benedico voi e il vostro lavoro affidandolo alla Vergine Santa, Speculum iustitiae. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

 

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<![CDATA[Ai genitori dell'Associazione "Talità kum" di Vicenza (2 marzo 2024)]]>Sat, 02 Mar 2024 09:15:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240302-associaz-talita-kum.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240302-associaz-talita-kum.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Sono contento di questa vostra visita e vi ringrazio di essere qui. Saluto Padre Ermes Ronchi, che vi accompagna spiritualmente.

La prima cosa che desidero è guardarvi in volto, accogliere con le braccia aperte le vostre storie segnate dal dolore e offrire una carezza al vostro cuore, spezzato e trafitto come quello di Gesù sulla croce: un cuore che sanguina, un cuore bagnato dalle lacrime e dilaniato da un pesante senso di vuoto.

La perdita di un figlio è un’esperienza che non accetta descrizioni teoriche e rigetta la banalità di parole religiose o sentimentali, di sterili incoraggiamenti o frasi di circostanza, che mentre vorrebbero consolare finiscono per ferire ancora di più chi, come voi, ogni giorno affronta una dura battaglia interiore. Non dobbiamo scivolare nell’atteggiamento degli amici di Giobbe, i quali offrono uno spettacolo penoso e insensato, tentando di giustificare la sofferenza, addirittura ricorrendo a teorie religiose. Piuttosto, siamo chiamati a imitare la commozione e la compassione di Gesù dinanzi al dolore, che lo porta a vivere nella sua stessa carne le sofferenze del mondo.

Il dolore, specialmente quando è così lancinante e privo di spiegazioni, ha bisogno soltanto di restare aggrappato al filo di una preghiera che grida a Dio giorno e notte, che a volte si esprime nell’assenza delle parole, che non tenta di risolvere il dramma ma, al contrario, abita domande che sempre tornano: “Perché, Signore? Perché è capitato proprio a me? Perché non sei intervenuto? Dove sei, mentre l’umanità soffre e il mio cuore piange una perdita incolmabile?”.

Fratelli e sorelle, questi interrogativi, che bruciano dentro, inquietano il cuore; allo stesso tempo, però, se ci mettiamo in cammino, come con tanto coraggio e anche con fatica fate voi, sono proprio queste domande sofferte ad aprire spiragli di luce, che danno la forza di andare avanti. Infatti, non c’è cosa peggiore che tacitare il dolore, mettere il silenziatore alla sofferenza, rimuovere i traumi senza farci i conti, come spesso induce a fare, nella corsa e nello stordimento, il nostro mondo. La domanda che si leva a Dio come un grido, invece, è salutare. È preghiera. Essa, se costringe a scavare dentro un ricordo doloroso e a piangere la perdita, diventa al contempo il primo passo dell’invocazione e apre a ricevere la consolazione e la pace interiore che il Signore non manca di donare.

Ce lo racconta il Vangelo, in quel brano da cui vi siete lasciati ispirare per dare un nome al vostro percorso (cfr Mc 5,22-43). Ci narra di un padre, capo della sinagoga, con una figlia gravemente ammalata; quell’uomo non rimane chiuso nel proprio dolore, col rischio di cedere alla disperazione, ma corre da Gesù e lo supplica di andare a casa sua. E il Signore lascia quello che stava facendo e cammina con lui. Il dolore lo interpella, perché la nostra sofferenza scava anche nel cuore di Dio.

C’è un particolare commovente in questo episodio: il cammino di Gesù con quel papà affranto dal dolore potrebbe interrompersi quando da casa arriva la notizia che non si voleva sentire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?» (v. 35). Gesù avrebbe potuto fermarsi, allargare le braccia e dire: “Non c’è più niente da fare”. Invece dice all’uomo: «Non temere, soltanto abbi fede!» (v. 36) e continua a camminare con lui, fino a entrare nella sua casa, invasa dalla morte. E, presa per mano la bambina, le ridona vita, la fa rialzare.

Questo ci dice una cosa importante: nella sofferenza, la prima risposta di Dio non è un discorso o una teoria, ma è il suo camminare con noi, il suo starci accanto. Gesù si è lasciato toccare dal nostro dolore, ha fatto la nostra stessa strada e non ci lascia soli, ma ci libera dal peso che ci opprime portandolo per noi e con noi. E come in quell’episodio, il Signore vuole venire nella nostra casa, la casa del nostro cuore e le case delle nostre famiglie sconvolte dalla morte: Lui ci vuole stare vicino, vuole toccare la nostra afflizione, vuole donarci la mano per rialzarci come ha fatto con la figlia di Giàiro.

Fratelli, sorelle, vi ringrazio perché fate spazio, nel vostro cuore e nelle vostre storie, a questo Vangelo. Gesù che cammina con voi, Gesù che entra in casa vostra e si lascia toccare dal dolore e dalla morte, Gesù che vi prende per mano per rialzarvi. Egli vuole asciugare le vostre lacrime e vi vuole rassicurare: la morte non ha l’ultima parola. Il Signore non lascia senza consolazione. Se continuate a portargli lacrime e domande, vi dà una certezza interiore che è fonte di pace: vi fa crescere nella certezza che, con la tenerezza del suo amore, Lui ha preso per mano i vostri figli e anche a loro ha detto, come a quella fanciulla: “Talità kum, alzati!”. E vuole prendere per mano pure voi, perché nella luce del Mistero pasquale possiate sentire la sua voce che anche a voi ripete: “Alzatevi, non perdete la speranza, non spegnete la gioia di vivere”.

Ed è bello pensare che le vostre figlie e i vostri figli, come la figlia di Giàiro, siano stati presi per mano dal Signore; e che un giorno li rivedrete, li riabbraccerete, potrete godere della loro presenza in una luce nuova, che nessuno potrà togliervi. Allora vedrete la croce con gli occhi della risurrezione, come fu per Maria e per gli Apostoli. Quella speranza, fiorita al mattino di Pasqua, è ciò che il Signore vuole seminare ora nel vostro cuore. Io vi auguro di accoglierla, di farla crescere, di custodirla in mezzo alle lacrime. E vorrei che sentiste non soltanto l’abbraccio di Dio, ma anche il mio affetto e la vicinanza della Chiesa, che vi vuole bene e desidera accompagnarvi.

Vi porto nel cuore e vi assicuro la mia preghiera. Anche voi, per favore, ricordatevi di pregare per me. Grazie.

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<![CDATA[Ai Partecipanti al Convegno "Vulnerabilità e comunità tra accoglienza e inclusione" (1° marzo 2024)]]>Fri, 01 Mar 2024 10:45:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240301-convegno-inclusione.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240301-convegno-inclusione.html

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e grazie di essere venuti!

In questi giorni siete stati riuniti alla Fraterna Domus di Sacrofano per la seconda “Cattedra dell’accoglienza”. Quello è un luogo adatto! Non solo perché è ampio e attrezzato: è adatto perché è accogliente! È un luogo dove vengono accolte persone anziane, famiglie e ragazzi in difficoltà, migranti. Per questo è bello che le sorelle dell’Associazione Fraterna Domus siano un po’ il motore e le animatrici di questa iniziativa. Grazie, care sorelle!

Ho visto il vostro programma di questi giorni: molto ricco e molto interessante. Al centro avete messo la vulnerabilità. Cioè avete fatto “reagire” – come si direbbe in chimica – l’accoglienza e la vulnerabilità, considerata nelle sue diverse forme. Apprezzo questa scelta, tipicamente evangelica, e vorrei lasciarvi alcuni spunti di riflessione e di cammino.

Prima di tutto: per accogliere i fratelli e le sorelle vulnerabili bisogna che io mi senta vulnerabile e accolto come tale da Cristo. Sempre Lui ci precede: si è fatto vulnerabile, fino alla Passione; ha accolto la nostra fragilità perché, grazie a Lui, noi possiamo fare altrettanto. San Paolo scrive: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi” (cfr Rm 15,7). Se rimaniamo in Lui, come tralci nella vite, porteremo frutti buoni, anche in questo vasto campo dell’accoglienza.

Un secondo spunto. Gesù ha passato la maggior parte del suo ministero pubblico, specialmente in Galilea, a contatto con i poveri e i malati di ogni genere. Questo ci dice che per noi la vulnerabilità non può essere un tema “politicamente corretto”, o una mera organizzazione di pratiche, per quanto buone. Lo dico perché purtroppo il rischio c’è, è sempre in agguato, malgrado tutta la buona volontà. Specialmente nelle realtà più grandi e strutturate, ma anche in quelle piccole, la vulnerabilità può diventare una categoria, le persone individui senza volto, il servizio una “prestazione” e così via. Allora bisogna rimanere ben ancorati al Vangelo, a Gesù, il quale non ha insegnato ai suoi discepoli a pianificare un’assistenza dei malati e dei poveri. Gesù ha voluto formare i discepoli a uno stile di vita stando a contatto con i vulnerabili, in mezzo a loro. I discepoli hanno visto come Lui incontrava la gente, hanno visto come Lui accoglieva: la sua vicinanza, la sua compassione, la sua tenerezza. E dopo la Risurrezione lo Spirito Santo ha impresso in loro questo stile di vita. Così, poi, sempre lo Spirito ha formato uomini e donne che sono diventati santi amando le persone vulnerabili come Gesù. Alcuni sono canonizzati e sono modelli per tutti noi; ma quanti uomini e donne si sono santificati nell’accoglienza dei piccoli, dei poveri, dei fragili, degli emarginati! Ed è importante, nelle nostre comunità, condividere in semplicità e gratitudine le storie di questi testimoni nascosti del Vangelo.

Un ultimo spunto vorrei lasciarvi. Nel Vangelo i poveri, i vulnerabili, non sono oggetti, sono soggetti, sono protagonisti insieme con Gesù dell’annuncio del Regno di Dio. Pensiamo a Bartimeo, il cieco di Gerico (cfr Mc 10,46-52). Quel racconto è emblematico, vi invito a rileggerlo spesso perché è ricchissimo. Studiando e meditando questo testo si vede che Gesù trova in quell’uomo la fede che cercava: solo Gesù lo riconosce in mezzo alla folla e ai rumori, ascolta il suo grido pieno di fede. E quell’uomo, che per la sua fede nel Signore riceve di nuovo la vista, si mette in cammino, segue Gesù e diventa suo testimone, tanto che la sua storia è entrata nei Vangeli. Il vulnerabile Bartimeo, salvato dal vulnerabile Gesù, partecipa alla gioia di essere testimone della sua Risurrezione. Vi ho citato questo racconto, ma ce ne sarebbero tanti altri, con diversi tipi di vulnerabilità, non solo fisica. Pensiamo alla Maddalena: lei, che era tormentata da sette demoni, è diventata la prima testimone di Gesù risorto. In sintesi: le persone vulnerabili, incontrate e accolte con la grazia di Cristo e con il suo stile, possono essere una presenza di Vangelo nella comunità credente e nella società.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per il vostro impegno. Andate avanti! La Madonna vi accompagni sempre. Vi benedico tutti di cuore. E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.

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<![CDATA[Ai Partecipanti al Convegno Internazionale "Uomo-Donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni" (1° marzo 2024)]]>Fri, 01 Mar 2024 08:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240301-convegno-uomo-donna.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/march/documents/20240301-convegno-uomo-donna.html

Parole del Santo Padre prima del discorso

Buongiorno! Chiedo di leggere, così non mi affatico tanto; ho ancora il raffreddore e mi affatica leggere per un po’. Ma vorrei sottolineare una cosa: è molto importante che ci sia questo incontro, questo incontro fra uomini e donne, perché oggi il pericolo più brutto è l’ideologia del gender, che annulla le differenze. Ho chiesto di fare studi a proposito di questa brutta ideologia del nostro tempo, che cancella le differenze e rende tutto uguale; cancellare la differenza è cancellare l’umanità. Uomo e donna, invece, stanno in una feconda “tensione”. Io ricordo di aver letto un romanzo dell’inizio del Novecento, scritto dal figlio dell’Arcivescovo di Canterbury: The Lord of the World. Il romanzo parla del futuribile ed è profetico, perché fa vedere questa tendenza di cancellare tutte le differenze. È interessante leggerlo, se avete tempo leggetelo, perché lì ci sono questi problemi di oggi; è stato un profeta quell’uomo.

 

Fratelli e sorelle!

Sono felice di partecipare a questo Convegno promosso dal Centro di Ricerca e Antropologia delle Vocazioni, durante il quale studiosi di varie parti del mondo, ciascuno a partire dalla propria competenza, si confronteranno sul tema «Uomo-donna immagine di Dio. Per un’antropologia delle vocazioni». Saluto tutti i partecipanti e ringrazio il Cardinale Ouellet per le sue parole: ancora non siamo santi, ma speriamo di restare sempre in cammino per diventarlo, questa è la prima vocazione che abbiamo ricevuto! E grazie soprattutto perché, qualche anno fa, insieme ad altre persone autorevoli e cercando l’alleanza tra i saperi ha dato vita a questo Centro, per avviare una ricerca accademica internazionale mirata a comprendere sempre meglio il significato e l’importanza delle vocazioni, nella Chiesa e nella società.

Lo scopo del presente Convegno è anzitutto quello di considerare e valorizzare la dimensione antropologica di ogni vocazione. Questo ci rimanda a una verità elementare e fondamentale, che oggi abbiamo bisogno di riscoprire in tutta la sua bellezza: la vita dell’essere umano è vocazione. Non dimentichiamolo: la dimensione antropologica, che soggiace ad ogni chiamata nell’ambito della comunità, ha a che fare con una caratteristica essenziale dell’essere umano in quanto tale: quella, cioè, che l’uomo stesso è vocazione. Ciascuno di noi, sia nelle grandi scelte che riguardano uno stato di vita, sia nelle numerose occasioni e situazioni in cui esse si incarnano e prendono forma, scopre ed esprime sé stesso come chiamato, come chiamata, come persona che si realizza nell’ascolto e nella risposta, condividendo il proprio essere e i propri doni con gli altri per il bene comune.

Questa scoperta ci fa uscire dall’isolamento di un io autoreferenziale e ci fa guardare a noi stessi come a una identità in relazione: io esisto e vivo in relazione a chi mi ha generato, alla realtà che mi trascende, agli altri e al mondo che mi circonda, rispetto al quale sono chiamato ad abbracciare con gioia e responsabilità una missione specifica e personale.

Tale verità antropologica è fondamentale perché risponde pienamente al desiderio di realizzazione umana e di felicità che abita nel nostro cuore. Nell’odierno contesto culturale talvolta si tende a dimenticare oppure a oscurare questa realtà, col rischio di ridurre l’essere umano ai suoi soli bisogni materiali o alle sue esigenze primarie, come fosse un oggetto senza coscienza e senza volontà, semplicemente trascinato dalla vita come parte di un ingranaggio meccanico. E invece l’uomo e la donna sono creati da Dio e sono immagine del Creatore; essi, cioè, si portano dentro un desiderio di eternità e di felicità che Dio stesso ha seminato nel loro cuore e che sono chiamati a realizzare attraverso una vocazione specifica. Per questo in noi abita una sana tensione interiore che mai dobbiamo soffocare: siamo chiamati alla felicità, alla pienezza della vita, a qualcosa di grande a cui Dio ci ha destinato. La vita di ognuno di noi, nessuno escluso, non è un incidente di percorso; il nostro stare al mondo non è un mero frutto del caso, ma facciamo parte di un disegno d’amore e siamo invitati ad uscire da noi stessi e a realizzarlo, per noi e per gli altri.

Per questo motivo, se è vero che ciascuno di noi ha una missione, cioè è chiamato a offrire il proprio contributo per migliorare il mondo e forgiare la società, a me piace sempre ricordare che non si tratta di un compito esterno affidato alla nostra vita, ma di una dimensione che coinvolge la nostra stessa natura, la struttura del nostro essere uomo-donna a immagine e somiglianza di Dio. Non soltanto ci è stata affidata una missione, ma ciascuno e ciascuna di noi è una missione: «io sono sempre una missione; tu sei sempre una missione; ogni battezzata e battezzato è una missione. Chi ama si mette in movimento, è spinto fuori da sé stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita. Nessuno è inutile e insignificante per l’amore di Dio» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2019).

Una eminente figura intellettuale e spirituale, il Cardinale Newman, ha parole illuminanti su questo. Ne cito alcune: «Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato.
Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio:
un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco o povero, disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti». E prosegue: «[Dio] non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace, un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato
anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti
e lo serva nella mia vocazione» (J.H. Newman, Meditazioni e preghiere, Milano 2002, 38-39).

Fratelli e sorelle, le vostre ricerche, i vostri studi e in modo speciale queste occasioni di confronto sono tanto necessarie e importanti, perché si diffonda la consapevolezza della vocazione a cui ogni essere umano è chiamato da Dio, in diversi stati di vita e grazie ai suoi molteplici carismi. Sono utili altresì per interrogarsi sulle sfide odierne, sulla crisi antropologica in atto e sulla necessaria promozione delle vocazioni umane e cristiane. Ed è importante che si sviluppi, anche grazie al vostro contributo, una sempre più efficace circolarità tra le diverse vocazioni, perché le opere che sgorgano dallo stato di vita laicale al servizio della società e della Chiesa, insieme al dono del ministero ordinato e della vita consacrata, possano contribuire a generare la speranza in un mondo sul quale incombono pesanti esperienze di morte.

Generare questa speranza, porsi al servizio del Regno di Dio per la costruzione di un mondo aperto e fraterno è un compito affidato ad ogni donna e ogni uomo del nostro tempo. Grazie per il contributo che voi date in questo senso. Grazie per il vostro lavoro di queste giornate. Lo affido al Signore nella preghiera, per intercessione di Maria, Icona della vocazione e Madre di ogni vocazione. E, per favore, anche voi non dimenticatevi di pregare per me.

Parole del Santo Padre al termine del discorso

Vi auguro buon lavoro! E non abbiate paura in questi momenti così ricchi nella vita della Chiesa. Lo Spirito Santo ci chiede una cosa importante: fedeltà. Ma la fedeltà è in cammino e la fedeltà ci porta spesso a rischiare. La “fedeltà da museo” non è fedeltà. Andare avanti con il coraggio di discernere e rischiare cercando la volontà di Dio. Vi auguro il meglio. Coraggio e avanti, senza perdere il senso dell’umorismo!

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<![CDATA[Udienza Generale del 28 febbraio 2024 - Catechesi. I vizi e le virtù. 9. <i>L’invidia e la vanagloria</i>]]>Wed, 28 Feb 2024 21:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240228-udienza-generale.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2024/documents/20240228-udienza-generale.html

Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

 

Catechesi. I vizi e le virtù. 9. L’invidia e la vanagloria

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi prendiamo in esame due vizi capitali che troviamo nei grandi elenchi che la tradizione spirituale ci ha lasciato: l’invidia e la vanagloria.

Partiamo dall’invidia. Se leggiamo la Sacra Scrittura (cfr Gen 4), essa ci appare come uno dei vizi più antichi: l’odio di Caino nei confronti di Abele si scatena quando si accorge che i sacrifici del fratello sono graditi a Dio. Caino era il primogenito di Adamo ed Eva, si era preso la parte più cospicua dell’eredità paterna; eppure, basta che Abele, il fratello minore, riesca in una piccola impresa, che Caino si rabbuia. Il volto dell’invidioso è sempre triste: lo sguardo è basso, pare che indaghi in continuazione il suolo, ma in realtà non vede niente, perché la mente è avviluppata da pensieri pieni di cattiveria. L’invidia, se non viene controllata, porta all’odio dell’altro. Abele sarà ucciso per mano di Caino, che non poteva sopportare la felicità del fratello.

L’invidia è un male indagato non solo in ambito cristiano: essa ha attirato l’attenzione di filosofi e sapienti di ogni cultura. Alla sua base c’è un rapporto di odio e amore: si vuole il male dell’altro, ma segretamente si desidera essere come lui. L’altro è l’epifania di ciò che vorremmo essere, e che in realtà non siamo. La sua fortuna ci sembra un’ingiustizia: sicuramente – pensiamo – noi avremmo meritato molto di più i suoi successi o la sua buona sorte!

Alla radice di questo vizio c’è una falsa idea di Dio: non si accetta che Dio abbia la sua “matematica”, diversa dalla nostra. Ad esempio, nella parabola di Gesù sui lavoratori chiamati dal padrone ad andare nella vigna alle diverse ore del giorno, quelli della prima ora credono di aver diritto a un salario maggiore di quelli arrivati per ultimi; ma il padrone dà a tutti la stessa paga, e dice: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,15). Vorremmo imporre a Dio la nostra logica egoistica, invece la logica di Dio è l’amore. I beni che Lui ci dona sono fatti per essere condivisi. Per questo San Paolo esorta i cristiani: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10). Ecco il rimedio all’invidia!

E veniamo al secondo vizio che oggi esaminiamo: la vanagloria. Essa va a braccetto con il demone dell’invidia, e insieme questi due vizi sono propri di una persona che ambisce ad essere il centro del mondo, libera di sfruttare tutto e tutti, oggetto di ogni lode e di ogni amore. La vanagloria è un’autostima gonfiata e senza fondamenti. Il vanaglorioso possiede un “io” ingombrante: non ha empatia e non si accorge che nel mondo esistono altre persone oltre a lui. I suoi rapporti sono sempre strumentali, improntati alla sopraffazione dell’altro. La sua persona, le sue imprese, i suoi successi devono essere mostrati a tutti: è un perenne mendicante di attenzione. E se qualche volta le sue qualità non vengono riconosciute, allora si arrabbia ferocemente. Gli altri sono ingiusti, non capiscono, non sono all’altezza. Nei suoi scritti Evagrio Pontico descrive l’amara vicenda di qualche monaco colpito dalla vanagloria. Succede che, dopo i primi successi nella vita spirituale, si sente già un arrivato, e allora si precipita nel mondo per ricevere le sue lodi. Ma non capisce di essere solo agli inizi del cammino spirituale, e che è in agguato una tentazione che presto lo farà cadere.

Per guarire il vanaglorioso, i maestri spirituali non suggeriscono molti rimedi. Perché in fondo il male della vanità ha il suo rimedio in sé stesso: le lodi che il vanaglorioso sperava di mietere nel mondo presto gli si rivolteranno contro. E quante persone, illuse da una falsa immagine di sé, sono poi cadute in peccati di cui presto si sarebbero vergognate!

L’istruzione più bella per vincere la vanagloria la possiamo trovare nella testimonianza di San Paolo. L’Apostolo fece sempre i conti con un difetto che non riuscì mai a vincere. Per ben tre volte chiese al Signore di liberarlo da quel tormento, ma alla fine Gesù gli rispose: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Da quel giorno Paolo fu liberato. E la sua conclusione dovrebbe diventare anche la nostra: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2 Cor 12,9).

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Saluti

Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier une délégation du Conseil National de Monaco, ainsi que les paroisses et les jeunes venus de France. En ce temps de Carême efforçons nous de ne pas nous mettre toujours au centre, mais cherchons plutôt à nous effacer pour laisser la place aux autres, les promouvoir et nous réjouir de leurs qualités et de leurs succès. Que Dieu vous bénisse.

[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare la delegazione del Consiglio Nazionale di Monaco, così come le parrocchie e i giovani provenienti dalla Francia. In questo tempo di Quaresima, sforziamoci di non mettere noi stessi al centro, piuttosto cerchiamo di farci da parte per fare spazio agli altri, promuoverli e gioire delle loro qualità e dei loro successi. Che Dio vi benedica tutti.]

I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Ireland, the Netherland, Norway, Malaysia, Vietnam, and the United States of America. I offer a special greeting to the students and professors from Saint Mary’s University, Twickenham, England. Upon all of you and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ. God bless you!

[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia, Malaysia, Vietnam e Stati Uniti d’America. Rivolgo un saluto particolare agli studenti e professori della Saint Mary’s University, di Twickenham, Inghilterra. Su tutti voi e sulle vostre famiglie, invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]

Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, die Fastenzeit ruft uns traditionell zum Almosengeben auf, also unsere Güter mit den bedürftigen Brüdern und Schwestern zu teilen. Der Herr stehe euch in jedem guten Werk der Liebe bei!  

[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, la Quaresima tradizionalmente ci invita a fare l’elemosina, cioè a condividere i nostri beni con i fratelli bisognosi. Il Signore vi sostenga in ogni vostra opera buona di carità!]

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española. Nos vendría bien en esta Cuaresma meditar con frecuencia las “Letanías de la humildad” del cardenal Merry del Val, para combatir los vicios que nos alejan de la vida en Cristo. Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los cuide. Muchas gracias.

Saúdo o Instituto «Vidas Raras» e todos os peregrinos de língua portuguesa. Confio à Virgem Maria os vossos corações e os vossos passos. Encorajo-vos a apostar na beleza do serviço, que engrandece o coração e torna fecundos os vossos talentos. De bom grado vos abençoo a vós e aos vossos entes queridos!

[Saluto l’Istituto “Vidas Raras” e tutti i pellegrini di lingua portoghese. Affido alla Vergine Maria i vostri propositi e i vostri passi. Vi incoraggio a scommettere sulla bellezza del servizio, che allarga il cuore e rende fecondi i vostri talenti. Volentieri benedico voi e i vostri cari!]

أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة. في مسيرةِ الزَّمنِ الأربعينيّ، وهي مسيرةُ صلاةٍ وصومٍ ومحبَّة، لِنَشعُرْ بأنَّنَا مَدعُوّونَ إلى أنْ نَختَبِرَ حبَّ اللهِ الَّذي يُجَدِّدُ حَيَاتَنَا. بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!

[Saluto i fedeli di lingua araba. Nel percorso quaresimale, che è cammino di preghiera, digiuno e carità, sentiamoci chiamati a sperimentare l’amore di Dio che rinnova la nostra vita. Il Signore vi benedica e vi protegga ‎sempre da ogni male‎‎‎‏!]

Pozdrawiam serdecznie Polaków. Zachęcam Was do cierpliwego kontynuowania duchowej pracy i zmagania z tym, co oddala Was od Boga i od siebie nawzajem – w życiu rodzinnym, w życiu społecznym we wspólnotach, w miejscach pracy i spotkań z bliźnimi. Zawierzam Was wstawiennictwu Dziewicy Maryi, pokornej Służebnicy Pańskiej, dla której miłość Boga była naczelną regułą życia. Z serca Wam błogosławię.

[Saluto cordialmente i polacchi. Vi incoraggio a continuare con pazienza nel vostro impegno spirituale lottando contro tutto ciò che vi allontana da Dio e dagli altri – nella vita in famiglia, nella comunità e nei luoghi di lavoro e di incontro. Vi affido all’intercessione della Vergine Maria, l’umile Ancella del Signore, per la quale la principale regola di vita è amare Dio. Vi benedico di cuore.]

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APPELLO

Il 1° marzo ricorrerà il 25° anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione sull’interdizione delle mine antipersona, che continuano a colpire civili innocenti, in particolare bambini, anche molti anni dopo la fine delle ostilità. Esprimo la mia vicinanza alle numerose vittime di questi subdoli ordigni, che ci ricordano la drammatica crudeltà delle guerre e il prezzo che le popolazioni civili sono costrette a subire. A questo proposito, ringrazio tutti coloro che offrono il loro contributo per assistere le vittime e bonificare le aree contaminate. Il loro lavoro è una risposta concreta alla chiamata universale ad essere operatori di pace, prendendoci cura dei nostri fratelli e sorelle.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.

In particolare, saluto i fedeli provenienti dalle Diocesi dell’Emilia Romagna e di San Marino-Montefeltro, accompagnati dai loro Vescovi.

Saluto inoltre i gruppi parrocchiali di Gricignano di Aversa e di Isola di Capo Rizzuto, auspicando che la sosta presso le tombe degli Apostoli susciti un rinnovato fervore spirituale.

Il mio pensiero va infine ai malati, agli anziani, agli sposi novelli e ai giovani, specialmente agli studenti dell’Istituto “Falcone e Borsellino” di Roma e ai ragazzi della Scuola “Giovanni Pascoli” di Fucecchio. Il cammino della Quaresima sia occasione per rientrare in sé stessi e rinnovarsi nello spirito.

Cari fratelli e sorelle, non dimentichiamo i popoli che soffrono a causa della guerra: Ucraina, Palestina, Israele e tanti altri. E preghiamo per le vittime dei recenti attacchi contro luoghi di culto in Burkina Faso; come pure per la popolazione di Haiti, dove continuano i crimini e i sequestri delle bande armate.

A tutti, la mia benedizione!

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<![CDATA[Ai Membri del Sinodo della Chiesa Armeno Cattolica (28 febbraio 2024)]]>Wed, 28 Feb 2024 08:00:00 +0100https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/february/documents/20240228-sinodo-armeno.htmlhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/february/documents/20240228-sinodo-armeno.html

Beatitudine,
cari Fratelli Vescovi,

benvenuti! È una gioia accogliervi a Roma, presso la tomba degli Apostoli Pietro e Paolo, proprio a seguito della festosa ricorrenza di San Gregorio di Narek, Dottore della Chiesa.

Come Vescovi, Successori degli Apostoli, abbiamo la responsabilità di accompagnare il santo Popolo di Dio verso Gesù, Signore e Amico degli uomini, nostro Buon Pastore. Per questo nel giorno dell’ordinazione episcopale ci siamo impegnati a custodire la fede, a rafforzare la speranza e a diffondere la carità di Cristo.

Cari Fratelli, una delle grandi responsabilità del Sinodo è proprio quella di dare alla vostra Chiesa i Vescovi di domani. Vi prego di sceglierli con cura, perché siano dediti al gregge, fedeli alla cura pastorale, mai arrivisti. Non vanno scelti in base alle proprie simpatie o tendenze, e bisogna stare molto attenti agli uomini che hanno “il fiuto degli affari” o a quelli che “hanno sempre la valigia in mano”, lasciando il popolo orfano. Un Vescovo che vede la sua Eparchia come luogo di passaggio verso un’altra più “prestigiosa” dimentica di essere sposato con la Chiesa e rischia – permettetemi l’espressione – di commettere un “adulterio pastorale”. Lo stesso accade quando si perde tempo a contrattare nuove destinazioni o promozioni: i Vescovi non si acquistano al mercato, è Cristo a sceglierli come Successori dei suoi Apostoli e Pastori del suo gregge.

In un mondo pieno di solitudini e distanze, quanti ci sono affidati devono sentire da noi il calore del Buon Pastore, la nostra attenzione paterna, la bellezza della fraternità, la misericordia di Dio. I figli del vostro caro popolo hanno bisogno della vicinanza dei loro Vescovi. So che in grandissimo numero sono dispersi nel mondo e talvolta in territori molto vasti, dov’è difficile che siano visitati. Ma la Chiesa è Madre amorevole e non può che cercare tutti i mezzi possibili per raggiungerli, perché ricevano l’amore di Dio nella loro propria tradizione ecclesiale. E non è tanto questione di strutture, le quali sono solo mezzi che aiutano la diffusione del Vangelo; è soprattutto questione di carità pastorale, di cercare e promuovere il bene con sguardo e apertura evangelici: penso anche all’essenzialità di una ancora più stretta collaborazione con la Chiesa armena apostolica.

Carissimi, in questo tempo santo della Quaresima siamo chiamati a guardare la Croce e a costruire su Cristo, che guarisce le ferite con il perdono e con l’amore. Siamo tenuti a intercedere per tutti, con grandezza d’animo e di spirito. Come San Gregorio di Narek, che così pregava: Signore, «ricordati […] di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia». E ancora, con un’attualità profetica impressionante, scriveva: «Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (Libro delle Lamentazioni, LXXXIII).

Voi, Fratelli, insieme con i sacerdoti, i diaconi, le consacrate e i consacrati, e tutti i fedeli della vostra Chiesa, avete una grande responsabilità. San Gregorio l’Illuminatore portò la luce di Cristo al popolo armeno ed esso è stato il primo, in quanto tale, ad accoglierla nella storia. Dunque voi siete testimoni e, per così dire, “primogeniti” di questa luce, siete un’alba chiamata a irradiare la profezia cristiana in un mondo che spesso preferisce le tenebre dell’odio, della divisione, della violenza, della vendetta. Certo – potreste dirmi – la nostra Chiesa non è grande numericamente. Ma ricordiamo che Dio ama compiere meraviglie con chi è piccolo. E in questo senso, per favore, non si trascuri la cura nei riguardi dei piccoli e dei poveri, mostrando loro l’esempio di una vita evangelica, lontana dai fasti delle ricchezze e dall’arroganza del potere; accogliendo i rifugiati, sostenendo quanti sono nella diaspora come fratelli e sorelle, figli e figlie.

Vorrei condividere con voi un altro aspetto che avverto come prioritario: pregare molto, anche per custodire quell’ordine interiore che permette di operare in armonia, discernendo le priorità del Vangelo, quelle care al Signore. Come ricorda l’antico detto latino: “Conserva l’ordine e l’ordine ti conserverà”. I vostri Sinodi siano dunque ben preparati, i problemi studiati con cura e valutati con saggezza; le soluzioni, sempre e solo per il bene delle anime, siano applicate e verificate con prudenza, coerenza e competenza, assicurando soprattutto la piena trasparenza, anche nel campo economico. Le leggi vanno conosciute e applicate non per formalismo, ma perché sono strumenti di un’ecclesiologia che permette anche a chi non ha potere di appellarsi alla Chiesa con pieni diritti codificati, evitando gli arbitrii del più forte.

Ancora un pensiero vorrei confidarvi e affidarvi, a proposito della pastorale vocazionale. In un mondo secolarizzato, i seminaristi e quanti si formano nella vita religiosa hanno bisogno, oggi più che mai, di essere ben radicati in una vita cristiana autentica, lontana da ogni “psicologia principesca”. Così pure ai sacerdoti, specialmente giovani, occorre la vicinanza dei Pastori, che favoriscano la comunione fraterna tra di loro, perché non si scoraggino davanti alle fatiche e giorno dopo giorno siano sempre più docili alla creatività dello Spirito Santo, per servire il Popolo di Dio con la gioia della carità, non con la rigidità e la ripetitività sterile dei burocrati. In tutto, speranza: anche se la messe è molta e gli operai sempre pochi, contiamo sul Signore, che compie prodigi in quanti si fidano di Lui.

Beatitudine, Fratelli carissimi, come non evocare infine, con le parole ma soprattutto con la preghiera, l’Armenia, in particolare tutti coloro che fuggono dal Nagorno-Karabakh, le numerose famiglie sfollate che cercano rifugio! Tante guerre, tante sofferenze. La prima guerra mondiale doveva essere l’ultima e gli Stati si costituirono nella Società delle Nazioni, “primizia” delle Nazioni Unite, pensando che ciò bastasse a preservare il dono della pace. Eppure da allora, quanti conflitti e massacri, sempre tragici e sempre inutili. Tante volte ho supplicato: “Basta!”. Echeggiamo tutti il grido della pace, perché tocchi i cuori, anche quelli insensibili alla sofferenza dei poveri e degli umili. E soprattutto preghiamo. Lo faccio per voi e per l’Armenia; e voi, per favore, ricordatevi di me!

Io vi ringrazio per la vostra presenza e per il vostro servizio. Prima di darvi la benedizione, vorrei recitare una preghiera, alla quale vi invito ad unirvi, di San Nerses il Grazioso, in attesa di poterlo celebrare, quando Dio vorrà, con i fratelli della Chiesa armena apostolica: «Signore misericordioso: abbi misericordia di tutti coloro che credono in te, dei miei e degli estranei, dei noti e degli ignoti, dei vivi e dei morti: concedi anche ai miei nemici ed avversari il perdono per i torti che mi hanno fatto, e convertili dall’ingiustizia che mostrano verso di me, affinché siano anch’essi degni della tua misericordia. Ed abbi misericordia delle tue creature, e di me grandissimo peccatore» (In Fede confesso, le 24 orazioni, XXIII). Grazie.

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